Quando il primo disco degli
Eclipse, vent’anni fa (!), vide la luce, non in molti furono in grado di pronosticare per gli svedesi un futuro da assoluti protagonisti della scena melodica internazionale.
Una volta divenuti uno sfidante e invidiato
benchmark per ogni frequentatore del settore, diventa poi difficile mantenere il proprio impegnativo
status e se oggi i nostri possono osservare il mondo dell’
hard-rock dall’alto dell’
Olimpo che accoglie solo gli artisti di livello superiore è grazie ad una graduale e costante crescita espressiva, pilotata dal talento innato di un vero maestro di nome
Erik Mårtensson.
Dopo il grande successo di "
Paradigm", il nuovo “
Wired” è chiamato dunque a mantenere il prospero
standard di una delle poche
band del terzo millennio (o giù di lì ...) veramente degne della
Grande Storia del genere e diciamo subito che la scelta di privilegiare il lato più appariscente della personalità musicale del gruppo appare forse proprio dettata dalla necessità di conquistare immediatamente il pubblico di riferimento, tentando di replicare l’impatto devastante di un brano come “
Viva la Victoria”.
A voi decidere se quest’approccio particolarmente
anthemico incontra appieno i vostri gusti, ma è certo che quella che si può tranquillamente definire una “specialità della casa” degli
Eclipse è ancora una volta congeniata con buongusto e intrisa d’imperiose peculiarità adescanti.
In quest’ottica si collocano i ritornelli e le melodie trainanti di “
Roses on your grave”, “
Dying breed” e “
Saturday night (Hallelujah)”, anche se personalmente è necessario attendere “
Run for cover”, con la sua miscela di Europe, Gary Moore (il titolo del brano contribuisce alla suggestione …) e Big Country per provare il primo vero e inoppugnabile brivido
cardio-uditivo del programma.
Si prosegue con “
Carved in stone”, un affresco sonico denso di passionalità e tensione espressiva, per poi riprendere con “
Twilight” a sollecitare con forza la porzione più istintiva dei sensi, mentre nel crescendo imperioso di “
Poison inside my heart” tal esigenza si mescola con una notevole pulsione evocativa.
Che dire, poi, di “
Bite the bullet” (favoloso il
break western-gothic), un poderoso e sferragliante frammento sonoro e dell’armonia ariosa di “
We didn't come to lose”, se non immaginarli come verosimili momenti
clou dei prossimi
live-set?
Il ritorno del tocco celtico in “
Things we love” non può che essere accolto con benevolenza e tuttavia maggiore ammirazione la desta la melodia spaziosa e avvincente di “
Dead inside”, marchiata a fuoco da un
Magnus Henriksson veramente impeccabile per tutta la durata dell’albo.
In conclusione, “
Wired” ci riconsegna un maturo e consolidato erede di
Mostri Sacri del calibro di Whitesnake, Europe e Rainbow (la citazione dell’”
Inno alla Gioia” in “
Twilight” piacerà, oltre ai
fans di
Beethoven, a quelli di
Blackmore …), che decide di “andare sul sicuro”, sfruttando ad arte le sue enormi prerogative d’istantanea seduzione … a “gente” come gli
Eclipse si è fatalmente portati a chiedere sempre qualcosa di più, ma in fondo, di fronte a risultati tanto coinvolgenti ed emozionanti, “accontentarsi” non è per nulla difficoltoso.
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