Recensire un nuovo disco dei
Praying Mantis rischia di diventare una “trappola” da riempire di banalità, tirando fatalmente in ballo la “storia” della
NWOBHM e utilizzando termini come riscatto,
feeling, classe e maturità.
Mi scuseranno dunque i lettori se ben consapevole dei pericoli non posso fare a meno di utilizzare proprio tali concetti per tentare di raccontare i contenuti di “
Katharsis”, un albo che si colloca con merito nella ricca produzione musicale dell’inossidabile formazione britannica, in particolare in quella più recente, contraddistinta dalla presenza in
line-up di
Jaycee Cuijpers,
Andy Burgess e
Hans in ‘t Zandt, al fianco degli storici fratelli
Troy.
Un’opera, insomma, che pur senza violenti scossoni e repentini cambi di percorso nella formula compositiva, non appare fastidiosamente conservatrice e ci regala un’oretta di dense vibrazioni emotive, equamente suddivise tra melodia, vigore, melodramma e raffinatezza.
La comunicativa, stentorea ed eclettica voce di
Jaycee Cuijpers contribuisce non poco a rendere maggiormente coinvolgente ed emozionante un
songwriting sempre piuttosto godibile, sostanzialmente in linea con il precedente “
Gravity” e meno efficace di quello apprezzato in “
Legacy”, per quanto mi riguarda finora l’apice dell’attuale versione dei
Praying Mantis.
Il timbro e le brillanti capacità interpretative di
Cuijpers emergono fin dal
pomposo atto di apertura “
Cry for the nations”, davvero fascinoso nel suo enfatico e immaginifico incedere, così come appaga e seduce la tensione passionale che il
vocalist olandese trasmette a “
Closer to heaven”, un eccellente numero “adulto” sospeso fra Journey ed Europe.
Tra i solchi del programma c’è spazio anche per le disinvolte atmosfere
hard-bluesy di “
Ain’t no rock ‘n’ roll in heaven” e della “sudista” "
Long time coming”, per valide celebrazioni Rainbow-
iane denominate “
Non omnis moriar” e "
Masquerade” e per l’evocativa languidezza di “
Sacrifice”, ma francamente preferisco la
Mantide quando intride i pezzi di ardore di marca UFO/MSG/Magnum, vedasi “
Wheels in motion” e "
The devil never changes”, o laddove riesce a “stupire” l’astante con il tocco
prog-folk concesso a “
Don’t call us now”.
Il clima “electro-spiritual” (si potrebbe parlare di qualcosa tra The Cult e U2 …) di “
Find our way back home”, infine, esaurisce in maniera abbastanza favorevole le citazioni sul lavoro di un gruppo intelligentemente legato alle fondamenta del genere e alla sua cospicua parabola artistica, arricchita,
ma guarda un po’, dall'ennesima ostentazione di
feeling, classe e maturità espressiva.
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