Copertina 8,5

Info

Anno di uscita:1990
Durata:52 min.
Etichetta:Mercury

Tracklist

  1. CALL OF THE WILD
  2. HANGIN' BY A THREAD
  3. JILTED!
  4. THE DISTANCE
  5. ROMANCE ON THE ROCKS
  6. CAN'T LOVE YA, CAN'T LEAVE YA
  7. HELL'S KITCHEN
  8. ST. JANE'S INFIRMARY
  9. MY SHIP
  10. I DON'T WANNA BE LOVED
  11. GIRL
  12. EVERYBODY'S BABY

Line up

  • John Conte: bass
  • Steve Conte: guitars
  • Kyf Brewer: vocals
  • Frankie LaRocka: drums

Voto medio utenti

Gli anni '80 sono stati gli anni dell'hard rock e del metal, punto e a capo. Roba che gente come i Greta Van Fleet non avrebbero nemmeno avuto il coraggio di mettere il naso fuori casa. Solo un'epoca disgraziata come quella che stiamo vivendo, artisticamente e socialmente, può permettere che simili aborti conquistino le vette delle preferenze del pubblico, senza peraltro generare neppure un movimento a traino. Fine del "pippone", ed inizio della recensione.

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I Company Of Wolves nascono dall'idea di quattro loschi figuri del New Jersey, nelle persone di Kyf Brewer (voce, armonica e pianoforte), dei fratelli Conte (Steve alla chitarra, John al basso) e del batterista Frankie LaRocka.
Di loro si inizia a vociferare tra i bassifondi col classico passaparola tra ascoltatori curiosi ed appassionati, tanto che il chiacchiericcio popolare alza i toni fino ad arrivare a sollecitare le orecchie dei talent scouts di Mercury Records. Il quartetto si fa le ossa tra infimi pub e locali di maggiore capienza, così il materiale proposto è già ampiamente consolidato quando si tratta di ritrovarsi tra le mura dei Cherokee Studios di Los Angeles, per poi essere rifinito ad Austin, Texas. L'album viene prodotto da Jeff Glixman sotto la supervisione del gruppo stesso, e fin dalla copertina semplice e pura in stile "Run With The Pack" (Bad Company), si capisce il target a cui ambisce: hard rock nerboruto e venato di blues, nella sacra tradizione degli anni 70, con una strizzata d'occhio agli arrangiamenti degli Eighties. Poco importa se il disco arreca il marchio 1990, le songs proposte sono il frutto di centinaia di prove in polverose cantine e di un'alchimia compositiva certificata dalla gavetta.

D'altra parte, non si improvvisa un capolavoro come il primo singolo/video "Call Of The Wild", quasi una danza tribale nel segno dell'elettricità e di un chorus spaccaossa, se non si ha alle spalle un background significativo. Non c'è spazio per smancerie e divagazioni sul tema: "Hangin' By A Thread" e "Jilted" vanno subito al sodo, con riff di chitarra talmente risoluti e graffianti da lasciare letteralmente il segno sulla pelle. Tostissima anche la sezione ritmica, in particolare il basso pulsante di John Conte, che non suona come un semplice accompagnamento alla batteria, ma anzi ne amplifica l'impatto frastornante. "The Distance" è l'altro episodio da potenziale airplay, una semi ballad dalla costruzione armonica che ricorda da vicino il Paul Rodgers DOC, quando ancora prestava la sua immaginifica voce agli hit scalaclassifiche dei migliori Bad Company. E non ho citato "Run With The Pack" a caso. Brewer scatena tutta la sua potenza di fuoco rock'n'roll in "Romance On The Rocks", aggiungendo un battente pianoforte ed una persuasiva armonica ad una performance vocale di impatto micidiale, per incisività sonica e padronanza stilistica. "Can't Love Ya, Can't Leave Ya" accende di nuovo le fiamme del nirvana (no Cobain connections) hard'n'heavy, in virtù di un sound quintessenziale ed elegante al tempo stesso, con il quattro corde di John Conte a "menare" il tempo forsennato, così come la cadenzata ma perentoria "Hell's Kitchen" rivendica il legame della Compagnia Dei Lupi con la strada, senza ipocriti paraventi a fare da barriera. "St. Jane's Infirmary" possiede quel tocco southern alla Molly Hatchet/Lynyrd Skynyrd capace di riscaldare anche l'iceberg (vero o presunto) del Titanic, un'atmosfera rovente stemperata dallo "svenevole" party rock di "My Ship", dove tutti i freni inibitori vanno letteralmente a farsi benedire.

"I Don't Wanna Be Loved" si candida come traccia più drammatica e sofferta del lotto; trattasi di uno slow dalle decise tinte bluesy, seppur filtrate dai crismi estetici dell'epoca, che la rendono appetibile anche ad un pubblico non propriamente assuefatto a determinate suggestioni così malinconiche. "Girl" non disdegna pastose derivazioni Whitesnake, mentre il delizioso numero acustico "Everybody's Baby" appone il sigillo ad un album che, definire maiuscolo, è persino poco. I Company Of Wolves torneranno a tastare il terreno con altri due lavori da studio, rispettivamente "Shakers And Tambourines" (1998) e "Steryl Spycase" (2001), ma è chiaro che l'occasione della vita viene mancata.

E non certo per colpa loro.

Recensione a cura di Alessandro Ariatti

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