Arrakis è l'immaginario "pianeta della spezia" sul quale è ambientata la celeberrima saga fantascientifica di Frank Herbert, iniziata nel lontano 1965 con "Dune" e conclusa vent'anni dopo con "La rifondazione di Dune". Se una rockband sceglie di chiamarsi
Sons of Arrakis, non è difficile intuire quale sia la loro ispirazione tematica e scenografica. Tenendo presente che Arrakis è descritto come pianeta completamente desertico, sabbioso e popolato dai misteriosi Fremen e dai micidiali "vermi delle sabbie" ed aggiungendo che il quartetto canadese propugna uno stoner/desert molto heavy, il contenuto di questo album d'esordio risulta abbastanza ovvio.
Solido stoner metallico, agile, ben congegnato, molto tradizionale. Mi ha ricordato i primi The Sword, i Bible of the Devil, i Graveyard, i Sahg, tanto per inquadrare il filone di appartenenza. Sei brani più un intro ed un outro strumentali dedicati allo "Shai-Hulud" ("cosa eterna"), il nome rituale Fremen per il verme delle sabbie.
Il groove canonico, quello pulsante e rotolante, lo incontriamo subito in "
The black mirror", uno di quei brani tutta energia e spinta battente. Buona esecuzione, giusta grinta e spessore, anche un certo retrogusto di già sentito.
Più articolata "
Complete obliteration", giocata sul contrasto tra il tessuto heavy strumentale ed il contributo vocale leggermente trasognato. Sviluppo valido, con validi cambi di ritmo ed atmosfera sci-fi dotata di un sottile feeling drammatico. Più pacata e sabbiosa "
Temple of the desert", dove affiora un sentore psych post-Kyussiano mischiato alla tensione rock-seventies di fondo. Stoner classico alla Duel, alla Graveyard, piacevole ma di maniera.
Nella stessa direzione, ma maggiormente ispirata, la cavalcata desert-onirica "
Omniscent messiah". Passo sinuoso e suadente, vocals nebbiose ed evocative, ma anche una potente accellerazione heavy-stoner piena di sciabolate solistiche, il tutto senza tirarla troppo per le lunghe. Essenzialità e concisione diventano sovente armi vincenti.
Ai ragazzi di Montreal non difetta il dinamismo, come conferma lo sviluppo complesso della corposa "
Lonesome preacher". In questa canzone riluce la feconda opera dei due chitarristi
Couture e
Duchesne, che abbelliscono ed elevano un classico tema stoner-metal roccioso e muscolare. L'ispirazione di nomi come The Sword o Saviours è intuibile, ma la flessibilità del songwriting con i molteplici cambi di ritmo è lodevole. Episodio che induce a pensare bene di una band comunque all'esordio su lunga distanza. E puntando sui gruppi canadesi, difficilmente si sbaglia.
La conclusiva "
Abomination" mostra un volto più compassato e vagamente doomy, un tiro compatto ed austero che si coniuga coerentemente con l'immaginario epico di Dune. Impatto dignitoso, non formidabile, ma in linea con la direzione scelta dalla band.
Una buona prova complessiva, con qualche momento brillante ed altri di routine. I nord-americani utilizzano bene sia le melodie vocali (un po' alla Baroness) che il dinamismo ritmico. Le loro canzoni non si appiattiscono sui soliti riff ripetuti all'infinito ma presentano sfaccettature e variazioni che tengono desta l'attenzione, pur senza dilungarsi in svolazzi jammistici. Formazione valida, con margini di miglioramento, da tenere d'occhio per il futuro.
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