Avviso a tutti gli estimatori di
Stevie Nicks, che poi amano anche crogiolarsi nelle sonorità fosche ed evocative di Black Sabbath, Uriah Heep, Blue Öyster Cult, Blood Ceremony, Jex Thoth ed Avatarium: i
Ruby the Hatchet sono sicuramente il gruppo che fa al caso vostro.
Una raccomandazione “superflua”, probabilmente, dacché gli americani sono già al quarto
album e i nostri lettori sono notoriamente molto attenti (un pizzico di
adulazione, non fa male …) a quello che succede nel ricco
rockrama contemporaneo, ma il mio ruolo di “bravo recensore” m’impone di ribadirlo con forza, tentando soprattutto di spiegare perché ritengo questo “
Fear is a cruel master” un disco di notevole valore, nonostante l’inflazione di “
gruppi doom-rock con voce femminile” che contraddistingue la scena di riferimento.
Innanzi tutto, partiamo dalla voce di
Jillian Taylor, a tratti davvero piuttosto affine a quella della maliosa cantante dei Fleetwood Mac, tanto da indurre l’astante, visto il contesto sonoro, a fantasticare su cosa sarebbe potuto succedere se invece che con
Lindsey Buckingham, la
Nicks avesse instaurato una
liaison con
Tony Iommi,
Mick Box o magari
Frank Gilcken dei Bang.
Johnny Scarps non è comunque un semplice comprimario e dimostra nei fatti, al pari degli altri membri dei
Ruby the Hatchet, di aver metabolizzato in maniera egregia i dogmi dell’
hard settantiano, riuscendo nell’impresa di riproporli senza fastidiosi calligrafismi, stratificando ad arte spirali magnetiche, oscure distorsioni e melodie irretenti, il tutto incorporato con dosi oculate di effluvi lisergici.
Arrivati alle canzoni, sorprende infatti la loro incisività emozionale in un contesto nella forma tutt’altro che “innovativo”, merito probabilmente, oltre che di squisite dotazioni tecniche, di una cultura specifica tutt’altro che approssimativa.
Solo in questo modo si può verosimilmente decifrare la tensione espressiva propugnata da “
The change”, capace di evocare nella memoria una fusione tra Fleetwood Mac e Blue Öyster Cult, il caliginoso
heavy-blues “
Deceiver” o ancora una “
Primitive man” che celebra in maniera splendida l’imponente statura artistica di “gente” come Budgie e Uriah Heep.
L’andamento torpido e ipnotico di “
1000 years” funge da preludio alla perla (nera) della raccolta, titolo “
Soothsayer” e un clima da
happening sonico orchestrato da un quintetto di
neo-post-hippies davvero molto abile nell’impastare di suggestioni immaginifiche le sue composizioni musicali.
Virtù piuttosto evidente anche nelle avvolgenti esalazioni malinconiche della successiva “
Last saga” e nei contorni maggiormente esoterici e adescatori di “
Thruster”, mentre con “
Amor gravis” i nostri offrono un efficace saggio di
psych-doom-metal per il terzo millennio, alternando stacchi impetuosi a tenebrosi momenti di stasi, in un crogiolo dove
Sabs, Jefferson Airplane e, ancora una volta, Fleetwood Mac, sfoggiano una felicissima convivenza.
“
Fear is a cruel master” è un disco di notevole fascino, che conferma i
Ruby the Hatchet tra i migliori interpreti di un suono che non cessa di stregare intere generazioni di musicisti … se i risultati sono questi, non rimane che giovarsi ancora una volta della sua seminale immortalità.