Prosegue l'oscuro percorso degli argentini
Mephistofeles, giunti al traguardo del decennio di carriera ed al quarto full-length "
Violent theatre". Percorso underground, certamente, ma che ha permesso loro di crearsi un certo seguito da "new cult-band" non soltanto in patria, grazie ad uno stile che coniuga bene il classico occult-doom dai profumi settantiani con massicce dosi di moderna psichedelia heavy molto allucinogena e drogata. Volendo sintetizzare in breve, qualcosa che ricorda i Pentagram o i Coven ma con l'indole ritualistica degli Electric Wizard e l'incedere sinuoso e lisergico dei conterranei Los Natas.
Questo nuovo lavoro ripropone sia le consuete lunghe cavalcate ossianiche, cariche di una oscurità slabbrata e tossica, che i brani più compatti e rocciosi ispirati ad una forma doom dall'impatto vigoroso. Suoni grezzi, compressi, luciferini, accentuano l'atmosfera malata da miasmi della decomposizione, mentre la struttura dei brani risulta sufficientemente dinamica e ricca di giravolte ritmiche. Nei brani più estesi si coglie chiaramente un'ambizione jam-trippy, mai troppo marcata o eccessiva, mentre in quelli più concisi emerge la buona energia groovy che il gruppo di Santa Fè ha sempre saputo esprimere con competenza.
Nella cupa e rocciosa "
Buried in worms" notiamo caratteristiche che si manterranno costanti nell'intero album: richiami stilistici verso colleghi più noti (ad esempio Sleep, Cathedral, Reverend Bizarre, tanto per citarne qualcuno) ed una certa linearità nei contributi vocali di
Gabriel Ravera. Aspetti ormai tipici del genere, dove si tende sempre più ad ispirarsi a schemi che hanno già funzionato bene in passato. Di positivo c'è sicuramente uno sviluppo dei brani agile, dinamico, unito alla buona performance strumentale e ad un'atmosfera carica di vibrazioni da orgia sabbatica.
Certo un pezzo come "
The meaning of all evil" sembra un estratto dei Black Sabbath suonato dagli Sleep in botta di acido, però se si mette da parte il retrogusto derivativo l'attitudine del trio risulta efficace. Marci, torvi e stordenti il giusto.
Come detto in precedenza, anche le tracce prettamente heavy doom sono oneste e ben costruite: "
Chapel sins" trasmette quel piacevole mood horror-melodico alla Count Raven (bene qui la parte vocale, sinistra e inquietante), mentre "
Last will" picchia dura e cazzuta da proto-doomsters settantiani (bello il riff turgido e i molti assoli pungenti).
Lo sforzo maggiore del trio latino-americano viene applicato alla monumentale "
Communion of the vile" (quattordici minuti) dove possiamo trovare un vero riassunto di stoner-doom moderno: dall'intro meditativo al riffone ribassato fino alle bolge infernali, dall'incedere lento e trascinato alle impennate ritmiche da scapocciamento, dalle ricche fughe chitarristiche di
Ravera alla solidità tenebrosa della sezione ritmica (compreso l'assolo di batteria ad opera di
Ivan Sacharczuk). Un brano che denota passione e voglia di fare, non diverso da altri già ascoltati ma che si snoda in maniera tutto sommato coinvolgente.
In definitiva il lavoro dei
Mephistofeles non riesce a sorprendere più di tanto, ma a tratti si illumina di spunti convincenti, vedi anche il feeling trippy-metallico della conclusiva "
Damnation or salvation?". Prova dignitosa per una band che paga ancora un dazio significativo ai classici del settore, però compensa con alcune buone idee e tanta genuina dedizione.
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