Copertina 7

Info

Anno di uscita:2022
Durata:52 min.
Etichetta:Wiggy Thump Records

Tracklist

  1. TORNILLO
  2. JOHN WAYNE
  3. ANTIOCH
  4. FEET'S
  5. WHOLE WORLD GONE CRAZY
  6. FOR THE KIDS
  7. THE WOLF
  8. MISSION TO MARS
  9. BAD MEDICINE
  10. HEAVY ON ME
  11. OTHER SIDE
  12. HEART OF STONE

Line up

  • Cody Cannon: lead vocals, acoustic guitar, harmonica
  • John Jeffers: lead guitar, slide guitar, lap steel, vocals
  • Cody Tate: lead guitar, rhythm guitar, vocals
  • Jeff Hogg: drums
  • Tony Kent: percussion, keyboards
  • Jamey Gleaves: bass guitar

Voto medio utenti

Collocata sul proprio fuso orario, all’incrocio fra Texas, New Mexico e Messico, El Paso e la sua frontiera disegnano vita e cultura come in nessun altro luogo del paese.
Nel 1659 i conquistatori spagnoli fondarono El Paso del Norte sulla riva meridionale del Rio Grande, o Rio Bravo come lo chiamano oggi i messicani.
È stata terra di comitati e di lotte degli operai agricoli contro il "caporalato".
E poi la Rivoluzione messicana, quando El Paso e Juárez divennero scenario di scontri militari e rivolte, intrighi, complotti, spionaggio e controspionaggio, sperimentazioni musicali e intrecci di culture, mentre in Texas aumentava l’intolleranza verso Mexicanos e Chicanos, additati dalla stampa anglofona come portatori di malattie e delinquenza già a fine Ottocento.
Le lotte sociali e la frequenza di riots, tumulti e rivolte, crebbero di pari passo con la xenofobia, mentre si sviluppavano movimenti di carattere millenaristico, come quello dei seguaci di Teresita Urrea: la “santa Teresita” guaritrice dei peones, ispiratrice della rivolta dei Chihuahuan di Tomóchic contro Porfirio Díaz, donna carismatica che non esitò a convivere con un anglo man di dieci anni più giovane, dal quale ebbe due figli, o di ispirazione anarchica, al movimento Magonista che tanta influenza ebbe nella prima fase della rivoluzione.

Scendendo verso sud, seguendo il Rio Grande, attraversando le città di San Elizaria e Fabens si giunge a Tornillo, località dove è stato registrato, e da cui ha preso il nome il sesto lavoro in studio dei Whiskey Myers, tornati dopo la parentesi di 'Early Morning Shakes" e 'Mud' ad autoprodursi come ai tempi di 'Road of Life' e 'Firewater', sempre sotto la label Wiggy Thump.

'Tornillo', si potrebbe dire quasi inevitabilmente e tenendo fede ai luoghi di origine del sestetto texano, si apre con un assolo struggente e quasi melodrammatico di tromba messicana, apripista di un'opera che si snoderà tra l'essenza del southern rock e la cultura del country blues.
'John Wayne', unico video clip dell'album diretto dalla Nayip, apre l'ascolto dell'album, fornendo immediatamente quel sapore vintage che troveremo lungo l'intero ascolto dell'opera.
Con l'Hammond di Tony Kent sugli scudi e la sempre vibrante armonica di Cody Cannon, il brano accarezza sonorità prettamente anni '70.
E a quegli anni si rifà anche il testo, dove la denuncia, nemmeno troppo celata, di un mondo che ha dimenticato cos'è l'amore, ripercorre la storia di un umanità ancora troppo distante dall'essenza della parola stessa: "Mio nonno aveva un fucile che prese da un vietcong, e me lo ha marchiato su una chitarra quando è tornato da Saigon. Di tanto in tanto penso a lui quando mi metto a suonare..."

La commistione tra gospel, soul e uno slide intenso e senza sfumature fa di 'Antioch' il pezzo che probabilmente più di altri si discosta dal genere, proponendo attraverso il testo il dolore di un passato che riporta a galla sofferenze e desiderio di cambiamento: "Mamma non piangere quando papà non c'è, ti picchiava davvero bene, potevo sentire le urla e le urla. Lo odio così tanto anche se porto il suo nome. Non posso prenderlo in questo momento, ma un giorno cambierà...".

Con 'Feet's' il rewind verso i padri putativi del genere è toccabile con mano, a partire da un testo che rievoca i sogni di un mondo che non c'è più (gotta keep on movin' chasing down a dream) e quella voglia e necessità di viaggiare senza fermarsi mai: "C'è un lungo tratto di autostrada che chiama il mio nome, lo sai che devo mantenere queste grandi ruote in movimento...".
Musicalmente la matrice blues si fa maestra dell'intera traccia, miscelata sapientemente dalla ritmica imposta da Cody Tate e dal solo del sempre puntuale John Jeffers, anima di un gruppo che con questo brano sconfina senza tanti fronzoli nei ricordi musicali dei primi Lynyrd Skynyrd.

Decise e udibili le varianti tra strofa e inciso in 'The Whole World Gone Crazy', dove il bluseggiare introduttivo si mischia con le note ballads del ritornello. Il politicamente scorretto del testo si fa avanti senza troppe remore, denunciando un mondo dannato e andato per via di ideologie che hanno segnato intere generazioni: "Il mio ragazzo che parla politicamente mi dice di prendere una posizione. Accettare di non essere d'accordo era nelle carte a portata di mano...".

Con 'For the Kids' entra in scena la prima ballads dell'opera. Lo slide della chitarra, i cori femminili, forniti come per il resto del disco, dalle veterane McCrary Sisters ed un testo tanto malinconico quanto realistico, fanno della traccia centrale dell'album uno dei punti più alti dell'intera opera.
Il mettere al centro quel "Non dobbiamo essere felici noi", fa riemergere quasi drammaticamente i sentimenti di coppia che attraversano i nostri tempi. Amori portati avanti per necessità, per dovere, per obbligo, senza più provare la vera essenza del sentimento stesso. Il tutto per un amore che travalica la coppia e si poggia sul presente e sul futuro dei figli: "Pensaci prima di andare via, non posso farlo da solo. Se potessimo stare insieme per i bambini per qualche anno, potrebbero non finire come noi. L'amore ha un modo tutto suo di perdere il suo splendore...".

E dopo una prima parte decisamente introspettiva e a tratti legata ad un concept d'altri tempi (a prescindere o meno dalle precedenti produzioni firmate dal georgiano Dave Cobb), con 'The Wolf' se ne apre una seconda decisamente più votata a quel sano rock 'n' roll capace di entrare nelle profondità dell'anima.
La voce graffiante, toccante, e che per chi scrive è in assoluto la più selvaggia dell'intero genere, unita ad un lungo e penetrante solo di chitarra che porta il brano a chiudersi con i soliti fiati ricchi di tradizione, fa di questo brano una delle colonne portanti dell'intero album, condensato da un testo in cui la rabbia (e qui la voce di Cody esprime il suo massimo) la fa da padrona: "Perché sono nato ribelle combattendo con il diavolo. Come puoi fermarmi quando non sei al mio livello? Non hai visto le cose che ho visto e fatto io...".

Con 'Bad Medicine' si esplorano ancora le sonorità blues, ci si muove ancora su terreni conosciuti ma che ad ogni passo regalano sempre qualcosa di inaspettato. Cori, fiati un pò ovunque e una ritmica decisamente rovente e accattivante, accompagnano un testo dove la storia tormentata di una coppia si intreccia nelle sofferenze di lui, ormai dipendente di una donna in grado di condizionarne l'esistenza: "Hai un cuore freddo e crudele e una mente magica nera. Giuro che mi hai lanciato una maledizione...".

'Heavy On Me' è la seconda ballads dell'album, sorretta dalla dolcezza della chitarra acustica e da uno slide che ne esalta i contenuti, questi ultimi indirizzati al sempre angelico rapporto tra padri e figli: "Papà mi ha cresciuto nello stesso modo in cui io farò con te un giorno...".

La penultima traccia del lavoro dei texani, 'Other Side', mantiene inalterato il mood dell'album, esaltando la sempre speziata chitarra slide di John Jeffers e la voce avvolgente di Cody Cannon, in un connubio con l'assolo di chitarra nella parte finale e i cori delle sempre suadenti McCrary Sisters.
Brano che nel testo tende ad indicare la via, il seguire strade meno tortuose per non trovarsi nelle difficoltà. Una pacca sulla spalla data ad un amico per far sentire una sincera vicinanza: "Ho avuto le donne più cattive e lo champagne, ma non mi ha portato la felicità. Ero solo vuoto finché non ho trovato l'amore, quindi ragazzo non perderti mai...".

A chiudere, con tanto di riflessioni di vita nel profondo testo realizzato, 'Heart of Stone' (personalmente il brano che più mi è rimasto dentro) traccia una linea acustica tipica del sestetto di Palestine.
Ad occhi chiusi il viaggio si fa intenso, ricco di quei panorami che valicano confini, dove la mente trova quella libertà troppo spesso negata dalla vita di tutti i giorni.
Gli archi creano le giuste atmosfere, lo sfumare in un rumore di pioggia su una strada battuta da poche automobili offre quella magia che porta chi ascolta ad un sogno ad occhi aperti.
Tornando alla tematica del testo, le riflessioni su ciò che si è stati e su ciò che si è imparato da un passato scomodo offrono spazi di crescita per un futuro diverso. Né meglio né peggio, perché il cuore di pietra quello è e quello rimane, ma la voglia che sia diverso, per dare un senso al domani: "A volte mi guardo allo specchio e non mi piace quello che vedo. Quanto alla mia giovinezza, ho buttato via la maggior parte di quegli anni. Ma sto imparando ad amare. Sto imparando ad accettare le cose di me che non posso cambiare...".

Cody Cannon, John Jeffers, Cody Tate, Jeff Hogg, Tony Kent e Jamey Gleaves hanno nuovamente fatto centro, realizzando un album vero e sincero, che non deluderà i propri fan e in qualche modo ha cercato di intraprendere sonorità alternative rispetto agli inizi.
A guardare le recenti posizioni nelle varie classifiche di rendimento trovo un pò anomali i numeri registrati rispetto alle ultime due produzioni. Forse ancora poco apprezzato da chi si è avvicinato per la prima volta al sestetto texano, l'album avrà bisogno di maggiore ascolto per entrare a far parte della discografia top del genere.
Le innumerevoli date che allo stato attuale stanno facendo tappa negli States, faranno sicuramente da traino per portare la band al livello che merita, e non escludo, non prima della fine dell'anno in corso e l'inizio del 2024, che Cody e soci possano trasvolare l'Atlantico e portare in Europa un disco che merita e che nella versione live può tranquillamente offrire molto, tanto di più.

Recensione a cura di Joe Zagari
Recensione a cura di Ghost Writer

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