In un’epoca di continui “ritorni”, più o meno prestigiosi e/o importanti, non so quanti fossero gli
chic-rockers che attendevano con “ansia vera” il secondo album dei
Cry Of Dawn, seppur artefici di un debutto di notevole valore.
Forse solo i devoti estimatori di
Goran Edman, pure loro però a rischio di “sfiancamento”, vista l’interminabile lista delle sue contribuzioni artistiche (Madison, Kharma, John Norum, Yngwie Malmsteen, Glory, Brazen Abbot, Street Talk, Crossfade, …).
Beh, cari
Gloriosi cultori del “bel canto” svedese, il mio caloroso consiglio è di confermare la fiducia nelle enormi doti espressive del vostro beniamino, stavolta (dopo che nell’esordio erano stati
Micheal Palace e
Daniel Flores i primari
partners del
vocalist scandinavo) affiancato da un altro talento cristallino della scena melodica di nome
Tommy Denander, il cui altrettanto (se non maggiormente …) corposo
curriculum rappresenta una garanzia di esperienza e attitudine specifica.
“
Anthropocene” è infatti un disco assai appassionante, perfetto per chi ama i Toto, i Journey, i Bad Habit, i Work of Art e i Radioactive, ratificando come la presenza di
Denander sia stata parecchio caratterizzante per il “nuovo corso” del progetto.
Eh già, perché è di questo che parliamo, e agli “scettici” nei confronti delle collaborazioni eccellenti di cui spesso si fregia la
Frontiers Music, suggerisco, prima di dare credito ai propri (anche giustificati) dubbi, di ascoltare senza pregiudizi le scintillanti pulsazioni crepuscolari di “
Devils highway”, la sopraffina classe melodica di “
Memory lane” (una sorta di Toto
meets Europe) o ancora la sofisticata energia profusa da
“Before you grow old”, a completare un trittico iniziale di grande suggestione.
Alla soffusa e
soulful “
Swan song of our love” è affidato il compito di sostenere un
incipit così efficace e se l’intento può dirsi tranquillamente raggiunto, a “
Edge of a broken heart” tocca invece l’incombenza di riassumere tutti i preziosi
cliché della ballata romantica, dimostrando che quando l’ispirazione e le capacità interpretative sono a questi livelli, l’originalità
tout court passa in secondo piano.
Sono altresì sicuro che “
Sign of the times” e "
Last of the innocent” faranno provare un fremito speciale a chi considera “
Isolation” un capitolo molto significativo nella ricca parabola musicale dei Toto e poco importa se poi la successiva “
A million years of freedom” è un numero di
hard-blues “sinfonico” solo (piuttosto) gradevole.
A recuperare l’indifferibile tensione emotiva ci pensa l’adescante linea armonica di “
End of the world”, mentre “
Long time coming home” aggiunge intriganti suggestioni malinconiche ad un programma che si conclude con la spigliata classicità
adulta di “
High and low”, tra
John Waite e
Bryan Adams.
Parlare di “sorpresa”, con luminari di questo calibro, può sembrare inopportuno eppure “
Anthropocene” finisce per stupire anche chi li segue da tempo e aveva già apprezzato “
Cry of dawn” … non male per un “disimpegnato”
side-project.