Se non avessi saputo che gli
Sweat sono una “nuova” scoperta dell’autorevole
Tee Pee Records, l’ascolto di “
Who do they think they are?” mi avrebbe probabilmente indotto a ritenere di avere a che fare con una classica “lost gem” proveniente dal passato, una di quelle
reliquie che il mercato musicale contemporaneo ama tanto rispolverare.
Ed ecco che, come spesso accade in tali situazioni, ci si trova di fronte ad un “nodale” quesito … può un gruppo che non propone nemmeno per sbaglio una qualche novità stilistica e che attinge prepotentemente dalla
Storia del
Rock, risultare coinvolgente e meritare una convinta forma di approvazione?
Per quanto mi riguarda, la risposta è sicuramente positiva e a rappresentare il celebre ago della bilancia ci sono la genuinità, la sensibilità e la cultura dei suddetti sostenitori della tradizione.
Il tutto si traduce poi nel
songwriting e nella forza espressiva con cui si gestisce l’intera operazione, e cioè nella capacità di scrivere belle canzoni e interpretarle con la giusta attitudine, dando
quasi l’impressione di trovarsi ancora, e torniamo agli svizzero-americani protagonisti della disamina, nel febbrile panorama artistico collocato tra la seconda metà dei
sixties e il decennio successivo.
Insomma, se riuscite a immaginare una
jam-session tra The Who e (primi) Heart, “
Lament” e “
Errors” non dovrebbero essere troppo distanti dalle vostre congetture, così come “
Convenient bird” e “
Jane” sembrano scaturire dal crogiolo creativo e “acido” della scena di San Francisco, con protagonisti i Jefferson Airplane.
“
Ice cream man” mescola The Moody Blues e Fleetwood Mac, “
Paradise” arriva a lambire certe vaporosità
AOR, mentre “
Dark horses (White lies)” combina languidi barocchismi e stratificazioni vocali di natura
Westcoast-iana, avvolgendo l’astante in un bozzolo
old-fashioned di notevole seduzione.
Gli
Sweat sono anche validi
rock n’ rollers e squisiti
psych-rockers e a darne prova arrivano rispettivamente “
Running around” e la delizia elettro-acustica “
My side of the mountain” (una sorta di
Jimi Hendrix meets Led Zeppelin), altri due efficaci frammenti sonori di un buonissimo
album, che si conclude con il suggestivo mormorio della brava
Sue Pedrazzi nell’
outro “
Into the lake”.
Qualora siate anche voi tra i sostenitori della tesi che le emozioni non dovrebbero essere misurate all’interno di rigidi parametri temporali, non credo sarete delusi da questo “
Who do they think they are?”, la prima testimonianza discografica di una
band parecchio promettente, chiamata in futuro a dimostrare in maniera ancora più risoluta di aver assimilato la lezione dei
Maestri senza indugiare in tentazioni di palese devozione.
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