In periodi di diffuso
revival rivolto all’
hard-rock settantiano, il panorama musicale contemporaneo offre davvero “l’imbarazzo della scelta” a chi ama questo collaudatissimo vocabolario espressivo.
E allora, perché destinare le proprie (sempre più sollecitate …) attenzioni ai
Palace of the King, un quintetto australiano che non fa altro che allinearsi ai tanti seguaci di Aerosmith, AC / DC, Led Zeppelin, Humble Pie, Rolling Stones e Little Feat?
Beh, in realtà, oltre alla competenza tecnica che i nostri condividono con molti altri loro colleghi, a giustificare tale considerazione non ci sono ulteriori fattori propriamente “oggettivi”, e a distinguerli dalla “massa” rimane solo la sensazione nitida di un approccio alla materia alquanto istintivo, genuino e piuttosto “ispirato”, in grado di rendere credibile e coinvolgente il loro percorso artistico, giunto alla quinta prova discografica sulla lunga distanza.
Come già accaduto per i lavori precedenti, anche “
Friends in low places” non inventa nulla di “nuovo” (e a questo punto non credo nemmeno che tra le ambizioni dei nostri ci sia questo oneroso obiettivo …) e tuttavia dimostra che la loro venerazione per la “tradizione” sa essere allietante e attraente, impregnata di una visceralità che li allontana dal manierismo di una sterile riproduzione dei “classici”.
Qualche
cliché di troppo finisce così per passare in secondo piano di fronte alle sinuose scosse elettriche (e alla plausibile ironia e/o provocazione del titolo …) di “
Children of the evolution”, all’avvolgente
groove soul n’ blues di “
A run for your money” o all’irruenza
garage-punk (del resto, stiamo parlando di conterranei di Radio Birdman e The New Christs …) della
title-track dell’opera.
“
Get right with your maker” (che curiosamente è anche il titolo del
full-length del 2018 …) e “
Down on your luck” sfidano i The Black Crowes sul loro terreno preferito, lasciando all’astante appassionato l’onere di decidere sull’esito (non scontato) della contesa, mentre “
Tell it like it is” e "
I’m sorry blues” infiammano il
sound del gruppo con un tizzone di urgenza “moderna”, in una maniera che potrebbe piacere ai sostenitori di
Jack White e The Black Keys.
“
Tear it down” e, soprattutto, “
One of these days” riportano la
band sulle rassicuranti (?) corsie della celebre
Autostrada per l’Inferno, per poi lasciare che il viaggio si concluda, con “
Dead end blues”, in un limaccioso vicolo dalle parti del Delta del Mississippi, là dove il
blues diventa più cupo, vagabondo e voluttuoso, e l’armonica è la perfetta compagna di chitarre, organo, voce, basso e batteria.
Anche se francamente a questo punto della carriera dei
Palace of the King avrei apprezzato molto uno “scatto” compositivo maggiormente peculiare, “
Friends in low places” è un disco che mi sento di consigliare a chi vuole divertirsi, senza troppi intellettualismi, con quel
rock n’ roll che da tempo immemore ci piace così tanto.
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