Eccomi qui a dire la mia sulla nuova fatica solista che il buon frontman degli
Iron Maiden ha pubblicato a distanza di quasi vent’anni dall’ultimo album, difatti alcune composizioni per detta del singer britannico risalgono molto in là nel tempo.
Faccio questa mia disamina dopo che due miei esimi colleghi lo hanno trattato con competenza ed imparzialità ben prima di me; inizio dalla fine dicendo che questo nuovo lavoro non è un capolavoro e non pretende di esserlo, ma assolutamente è un bel disco.
Partendo dalla rocciosa “
Afterglow of ragnarok” o “
Rain on the graves” il nostro si muove più su territori hard che heavy metal, mi ha a volte lasciato un po' così nel suddetto brano il chorus sia poverino e troppo ripetitivo.
Bella invece “
Finger in the wounds” con ungran lavoro di chitarre da parte di
Roy Z e con una bella sezione arabeggiante.
Ecco “
Eternity has failed” che ormai lo sanno pure i muri è la versione primigenia dell’opener che si trova su “
The Book Of Souls”, album del 2015 delle Vergini Di Ferro; qui il brano è più epico, asciutto ed anthemico, non si perde in ghirigori ed ha una bella parte solista suonata dalle tastiere del nostro
Maestro Mistheria.
Ed ora veniamo alle tre tracce in coda, “
Face in the mirror” è una bellissima ballad intimista con il piano e le chitarre acustiche che fanno il loro dovere ed il buon
Bruce che modula bene la sua voce, non sgolandosi ma offrendo una performance degna di nota.
“
Shadows of the gods” è un pezzo per certi versi amaro, condotto dalla band in gran spolvero con orchestrazioni; il singer fa la parte del leone con una bella sezione centrale più energica ed heavy.
Invece la conclusiva e lunga “
Sonata (Immortal beloved)”, è un brano che lascia un po' interdetti sulle prime ma ascoltandolo più volte cresce; mi sembra che il nostro abbia voluto osare con un pezzo dove echi prog e teatralità vanno di pari passo e sinceramente l’esperimento non mi è affatto dispiaciuto.
Concludendo questo settimo sigillo (
Bergman docet!) è un buon disco solista che permette di capire di più l’anima artistica di
Dickinson quando non è al servizio di “sua bassità”
Steve Harris, che nonostante tutto e le batoste ricevute dalla vita sforna un album del genere; un plauso va alla band che lo segue che è la stessa inalterata formazione del penultimo lavoro del 2005 con un Maestro Mistheria sugli scudi, bravi tutti.
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