Gli svizzeri
Messiah, che non hanno, o almeno non dovrebbero, aver bisogno di presentazioni, dopo l’abbandono di
Andy Kaina nel 2021, a cui purtroppo seguì l’anno successivo la sua morte, tornano a distanza di circa quattro anni dal buon
“Fracmont” con un nuovo full-length:
“Christus Hypercubus”, ancora una volta sotto l’egida della
High Roller Records.
A prendere il posto del compianto
Andy Kaina è
Marcus Seebach, proveniente dai
Coira, ed in più vi è l’ingresso, per la prima volta nella storia dei
Messiah, di una seconda chitarra ad affiancare il mastermind
Brögi: quella di
V.O. Pulver, che con il suo tasso tecnico più elevato e l’alterità stilistica rispetto al suo compare, avrà la sua rilevanza sul risultato finale.
Vorrei fare una doverosa premessa…
Io non sono un grande amante, seppur ne riconosca il valore, dell’era
Kaina della band…resto fermamente convinto che i
Messiah abbiano dato il loro meglio nello strepitoso
“Hymn to Abramelin” (1986) ed
"Extreme Cold Weather" (1987), entrambi con il mitico
Tschösi al microfono. Indubbiamente erano molto più rudimentali e grezzi, tuttavia, per i tempi, risultavano davvero estremi ed originali.
Io me ne innamorai che ero un ragazzetto, per questioni anagrafiche, svariati anni dopo…ne sentivo parlare nei circuiti dell’underground più estremo della mia bella Firenze (quando la scena era più solida di adesso). Ricordo che mi affrettai a recuperare quei “cimeli” ordinandoli al mio negozietto di fiducia…e fu amore a primo ascolto.
Mentre i dischi con
Kaina, con la conseguente svolta thrash/death piuttosto all’avanguardia (per l’epoca), non mi piacquero moltissimo.
In ogni caso non ho mai avuto una mentalità chiusa e sono riuscito, guardando ai
Messiah sotto un’ottica diversa, ad apprezzare anche il loro repertorio dei primi anni ’90. Inoltre devo dire che il loro come back del 2020,
“Fracmont”, pur senza gridare al miracolo, lo trovai a livello di attitudine più old-school, e in controtendenza, rispetto a molte uscite odierne, di album più datati come per esempio
“Choir of Horrors” (1991) o
“Rotten Perish” (1992) – che in ogni caso sono ottimi dischi.
Per quanto mi riguarda ritengo di essere, come avrete capito, un amante della vecchia guardia…ma non suo prigioniero.
Dunque penso di aver adeguatamente sgombrato il pensiero dall’invadente passato del gruppo, a cui sono legato, e di potermi approcciare obbiettivamente a questo
“Christus Hypercubus”.
Il settimo lavoro degli svizzeri si caratterizza per un thrash dalla forte componente death, sostenuto da una produzione massiccia e piuttosto in linea con gli standard delle nuove generazioni del metal.
Rispetto al suo predecessore si tratta di un prodotto che si contraddistingue per una maggiore modernità, sconfinante talvolta in episodi limitrofi al metalcore/deathcore (si prenda ad esempio
“Soul Observatory” e
“Acid Fish”), questo anche grazie, soprattutto, alle linee vocali della new entry. Inoltre vi troviamo un’attitudine più diretta e meno melodica, dove la componente “progressive” – sempre che fosse lecito definirla progressive – ha uno spazio decisamente inferiore (se non proprio assente), e un’attenzione piuttosto marcata per il groove.
In generale, si ha la sensazione di una cesura decisa con l’impostazione del passato, la quale a mio giudizio rende i
Messiah quasi un’altra band.
Rimangono elementi del vecchio sound ma sono inseriti in un contesto estremo molto più da mainstream e al passo con le nuove "mode", che di per sé potrebbe anche non essere un male, tuttavia, purtroppo, nonostante i pezzi funzionino, lasciano un po’ di amaro in bocca quando si avvertono alcune soluzioni stilistiche ruffiane e stereotipate…Inoltre il guitarwork più complesso e raffinato, attribuibile all’ingresso della seconda ascia di
V.O. Pulver, non si traduce in un pregio effettivamente sostanziale.
Forse gli svizzeri hanno puntato ad ampliare il loro bacino di utenza di fan…ma non so quanto lo zoccolo duro che li ha sempre sostenuti ne sarà felice.
In ogni caso non mancano episodi ben riusciti, e come ho già accennato, si tratta di un platter solido, con una direzione ben precisa e dal sound muscolare.
Abbiamo pezzi veloci con vocals ficcanti come
“Sikhote Alin” e la
“Title-track” (forse le migliori del lotto), mid-tempo maligni e suadenti come la fin troppo scontata
“Speedsucker Romance”, e qualche reminiscenza lontana, nelle voci introduttive di
Brögi, della magia di
“Hymn to Abramelin” in
“The Venus Baroness I”; che insieme alla seconda parte, contraddistinta da riffs fin troppo smaccatamente slayeriani (così come quelli di
“Centipede Bites”), rappresenta forse l’unico episodio dove viene mantenuta la vena progressive che gli svizzeri mostrarono, seppur timidamente, già nell’'86 con
“The Dentist”. Anche se la qualità purtroppo non è perfino lontanamente paragonabile.
Un LP che non piacerà a chi è in cerca di quel thrash senza tanti fronzoli, dalle tinte
proto black/death, che contraddistingueva i
Messiah degli esordi…
Piuttosto, chi ha seguito e accolto con piacere gli sviluppi più in voga del metal estremo, vi troverà un certo godimento.
Mi sorge spontanea la domanda se nell’attuale panorama metal, già ampiamente inflazionato da proposte simili, vi era il bisogno di un tale album…ma questo non spetta a me decretarlo.
Ai posteri l'ardua sentenza.
Recensione a cura di
DiX88