Iniziamo dalla fine, ovvero dal voto in calce: 6,5. Ecco, perché il voto è sì sufficiente ma non così alto come quelli che si son visti dal giorno della pubblicazione (o anche prima)?
Semplicemente perché, dal punto di vista artistico è un 5, da quello commerciale è un 8. Inutile dire che la media tra i due fa un bel 6,5.
Ma, proviamo ad analizzare questa edizione estesa del 19° album in studio dei
Judas Priest. Innanzitutto, consta di ben 14 brani. E voi direte: “perché, pur rendendoli disponibili all'ascolto in tutte le piattaforme, quella principale ne contiene solo 11?” Mah?! Probabilmente, la spiegazione più plausibile sarebbe che: gli stessi (o chi li gestisce), non ritenevano abbastanza valide e funzionali queste tre ultime tracce. Oppure, semplicemente, dopo aver dato ragione ai fan circa la produzione scadente dell'album di un decennio fa, questa volta li hanno accontentati circa le lamentele sul precedente che ne proponeva 14. Saranno congetture? Fatto sta che, i collezionisti (o completisti) non si faranno certo tutte queste disquisizioni. Tra l'altro, oltre a quella in vinile con una copertina differente con accluso il 7" per le stesse, esiste anche il trittico di LP colorati che con le costine sovrapposte ricrea il logo del gruppo.
Il fatto è che: il problema, per il sottoscritto, è proprio quello di voler accontentare la maggior parte delle persone possibili. Che siano quelli che investono i soldi su di loro o gli eventuali acquirenti non è dato sapere... E, oggi, questo viene chiamato con l'orrendo termine "fanservice". Ma, i primi a cui non piace sentirlo dire sono proprio i fan sfegatati! Difatti, pur essendo la caratteristica principale del vincente
Firepower, questa veniva sottolineata insieme ai complimentoni.
Ma, finché una cosa funziona, perché cambiarla? Chi è che, quando va ad acquistare un determinato prodotto, vuole che questo sia diverso da quello che ha sempre usato? Nessuno! Altrimenti dove sta la fidelizzazione?
Però, qui parliamo di musica, la cosiddetta "seconda arte". E non di articoli che si acquistano per soddisfare un bisogno! Oppure si?
Ma vediamo quella incisa nel CD che troviamo all'interno del Digibook, come ormai ci ha abituato la
Sony Music da quando è riuscita a riunirli nella formazione con la voce originale. Ecco, cosa c'è che non va? I suoni sono perfetti, anche troppo! Le canzoni rimangono impresse in testa, sì, fin dal primo ascolto! È un difetto? Non precisamente, almeno che non si voglia che il suddetto dischetto offra qualcos'altro. Tipo l'originalità. Una cosa a cui non siamo più abituati, e che quando ci si presenta davanti incute subito timore tanto da venire denigrata per partito preso.
Perché, se come spesso accade con gli artisti navigati si riconosce subito il loro pennello, qui siamo quasi di fronte a un lavoro su commissione. Impeccabile, se non fosse che spesso il brivido non c'è! Oltre ai vari (se non numerosi) richiami al passato - che, ricordiamolo, non portano nessun rischio alcuno - la cosa che spicca di più è la presenza, di fatto, di una sola chitarra. Solida quanto si vuole, e anche decisa, ma non proprio lo stilema dell'heavy metal creato nel lontano 1976 dai
Judas Priest.
E ora veniamo alla parte negativa... Perché, se da un lato abbiamo un talentuoso chitarrista - entrato in scena anche grazie a un certo
Steve Harris e alla sua figliola (da segnalare la sua apparizione nell'ultimo album di quei
Deeds che debuttarono proprio grazie alla
Beast Records con il nome di
Dirty Deeds, e in cui ritroviamo quel
Tony Newton ora nei
KK's Priest) - che ripropone, per quanto può, una sorta di ibrido dei due fuoriclasse che forgiarono il suono della band e che, purtroppo, si congedarono uno con
Nostradamus e l'altro con
Redeemer of Souls. Dall'altra c'è il solito
Scott Travis e l'indifferente
Ian Hill. Il primo ripropone lo stesso repertorio fin dal 1990 (il che non è un male fin quanto il tutto non diventa monotono), il secondo lo sentiamo quando, quella che dovrebbe essere l'altra ascia, alza il volume del suo basso nel banco del mixer.
Su
Rob Halford facciamo un discorso a parte, perché lo sappiamo tutti che: quello che sentiamo non è proprio tutto quello che lui riesce oggi a cantare. Inutile girarci attorno... Se dal vivo - pur essendoci condizioni diverse - la performance vocale non è la stessa (e già lo abbiamo potuto constatare fin dai filmati delle prime date del tour) non può esserlo, di fatto, neanche in studio. Così come vale per gli strumenti, anche il suo può essere modificato, ripetuto, ricreato, ecc.
Però, sulla produzione non si può dire nulla. Questa volta - pur essendoci ancora quel
Tom Allom nei due pezzi finali della versione normale, e per quanto riguarda il mastering -
Andy Sneap si è superato. Anche se, essendo stato registrato in tre studi diversi al di là dell'oceano (e in uno in Gran Bretagna) la puzza di artefatto si sente lontano un miglio. Ma, in questo caso, pare che non dia fastidio a chi si approccia al metal classico contemporaneo.
Arriviamo alle note dolenti, appunto. I cosiddetti autoplagi. Voi quanti ne avete sentiti? Oppure, ormai, non ci si fa caso? Essendo quei brani memorizzati a dovere... Lo spettro di
Painkiller appare più e più volte, fin dall'iniziale
"Panic Attack", che ricalca l'omonima prima traccia perfino nell'assolo e nel finale. Non parliamo, poi, dell'effetto meccanico di
"Love Bites" e del ritornello ripetuto stile
"Breaking the Law". Proseguiamo con il cantato di
"The Serpent and the King" - potrebbe benissimo essere uno dei migliori (o peggiori, fate voi) brani mai composti dai
Primal Fear - e l'intermezzo strumentale rubato a
"Night Crawler". L'impatto c'è, peccato che sia un intero collage! Su
"Invincible Shield" nulla da dire: è un anthem che rievoca i bei fasti andati, nonché una certa
"Freewheel Burning". Ma, anche se abbiamo un accenno del classico scambio di assoli di una volta, la chitarra che sentiamo è sempre una:
Richie Faulkner. È questo il rammarico maggiore... Comunque, c'è di peggio in
"Devil in Disguise", dove nel refrain ritroviamo
"Leather Rebel" (come anche all'inizio della traccia numero 7).
"Gates of Hell" può essere l'unico barlume di speranza che, ancora, qualcosa di diverso si possa udire da questi
Judas Priest. Anche l'apertura melodica della 6 corde e l'accelerata di batteria, nel finale, riescono ad aggiungere della foga, prima dell'accattivante ma un po' annacquata
"Crown of Horns". In cui riecheggia
"Bloodstone", o era da
Point of Entry? Ma può essere anche tutta colpa della mia pareidolia... Come dicevamo sopra, con
"As God Is my Witness" si chiude il reboot di
"Leather Rebel". Eppure, poi, sfocia in un bel pezzo arcigno che ci riporta ad
"All Guns Blazing"! In
"Trial by Fire" Rob sale in cattedra, tanto da riportarci ai suoi tempi da solista. Ma questi non sono gli
Halford... Da loro bisogna pretendere di più! Ed ecco che snocciolano - dopo
Ian in evidenza - un brano di Ozzyana memoria (sia per l'arpeggio targato 1986 che per quel suo piglio modernista), e con
"Escape from Reality" veniamo trascinati verso lidi oscuri. Mentre, con
"Sons of Thunder" siamo più dalle parti dell'orgoglio biker (come già avvenuto nel debutto dei loro rivali:
"Brothers of the Road"). Niente di trascendentale, eccetto una fugace quanto brillante corsa sui tasti che speriamo sia dell'inimitabile
Glenn Tipton,
pare autore solo di questo e del precedente brano. E siamo arrivati a
"Giants in the Sky": pezzo da 90 dell'intero disco, con il suo incedere fiero, rovinato solo dall'urlo nel finale che mette il sigillo anche all'intero album.
Ma qui noi parliamo della Deluxe Edition e, quindi, ci spettano altre tre tracce da sviscerare. La prima vuole riportarci ai tempi di
Rocka Rolla e, tra l'altro, ricorda anche un cavallo di battaglia dei
KISS. Si intitola
"Fight of Your Life" ma, pare più un divertissement che un brano da tramandare ai posteri. Meno definita la successiva
"Vicious Circle" (la terza composizione a firma
Tipton), quasi un esercizio di stile che poteva stare benissimo sull'album della reunion. L'ultima è stata scritta da un collaboratore di vecchia data del gruppo,
"(Take These) Chains" e
"Some Heads Are Gonna Roll", oltreché di
Rob per
"Twist" da
Resurrection. A parere del sottoscritto, questa
"The Lodger",
Bob Halligan Jr. se la poteva tenere chiusa in un cassetto. O, magari, poteva essere sfruttata meglio dai Nostri.
Appurato che l'intelligenza artificiale non abbia influito sul concepimento dell'opera, come la copertina creata da
Mark Wilkinson - celebre per i primi album dei
Marillion, nonché autore degli ultimi due degli
Iron Maiden, oltre che per gli stessi
Priest a partire da
Ram It Down - che vedete qui sopra, quale può essere il motivo per cui lo
"Scudo Invincibile" non va annoverato tra le loro migliori uscite? Forse che non ha un'anima tutta sua, e che non è altro che un rimasticamento continuo avvolto con un bello strato di pluriball? Certo, può essere che tanti non ci badino al fatto che, questo "già sentito" con un bell'incarto, non possa resistere al tempo. A me, a quasi un mese dall'uscita, continua a dare quelle stesse sensazioni. Ovvero: nessuna emozione. Lo trovo piatto! So di avere un disco griffato
Judas Priest, ma che non mi provoca alcun sussulto, se non qualche buon headbanging ogni tanto. Insomma, se voglio dei veri inni, e non di certe repliche sbiadite, vado a prendere dallo scaffale i loro classici. O, tutt'al più, mi sollazzo con un album che so che non è stato creato con lo stampino.