Tanto vale confessare: credo di esser stato uno dei pochi(ssimi) ad aver digerito, se non proprio apprezzato, la svolta
synthwave anni ’80 del precedente “
Mannequins” (2021).
Al tempo stesso, ero ben consapevole che i “veri”
Hail Spirit Noir non fossero certo quelli; così, nell’esatto istante in cui ho udito il nuovo singolo “
The Temple of Curved Space” mi sono sciolto in un sorriso compiaciuto, e la scritta “
bentornati” a caratteri cubitali si è immediatamente materializzata nella mia obsoleta testolina.
“
Fossil Gardens”, peraltro, non si limita a rivisitare le stralunate, ma tutto sommato placide, scorribande sonore di “
Eden in Reverse”: l’orologio della
DeLorean, infatti, è stato settato al periodo 2012-2014, ossia quello di sottovalutati gioiellini del calibro di “
Pneuma” e “
Oi Magoi”.
Largo, dunque, ai ripescaggi di stampo
black, ai
blast beats ed alle
harsh vocals, che temevamo ormai accantonate
sine die dalla compagine ellenica.
Attenzione però: i Nostri non hanno certo gettato la stravagante raffinatezza della loro proposta ai rovi, né hanno smarrito il
trademark lirico che da sempre li contraddistingue, a cavallo tra esistenzialismo sci-fi, surrealismo psichedelico ed eccentrica drammaticità. Per rendervene conto vi basterà posare le orecchie su composizioni come la colossale “
The Road to Awe” o l’intensissima
title track, che grondano letteralmente classe compositiva.
Più in generale, il connubio tra partiture estreme ed aperture teatrali dal taglio più melodico è costante nell’arco dei 44 minuti di durata del
platter, trovando sintesi particolarmente efficaci all’altezza di brani come “
The Blue Dot” e “
Curse You, Entropia”.
Ad ulteriore conferma di una rinnovata ispirazione, si registra con soddisfazione la qualità incrollabile di una
tracklist in cui vengono valorizzati anche gli episodi -sulla carta- meno significativi (penso
in primis al bizzarro incedere corale di “
Ludwig in Orbit”).
Sontuosi, poi, i suoni ottenuti da
Dimitris Douvras (già con
Rotting Christ e
Nightstalker) nei
Lunatech Studios, così come la prestazione strumentale e la cura per gli arrangiamenti (una volta ancora, bisognerebbe erigere un monumento in onore del tastierista
Haris).
Non me la sento, invece, di sperticarmi in altrettante lodi per l’
artwork di copertina a firma
George Baramatis, senz’altro coerente con le atmosfere surreali ed oniriche del combo, ma non necessariamente imbattibile…
Dettagli futili, ad ogni modo: gli
Hail Spirit Noir sono tornati a fare ciò che riesce loro meglio, e noi non possiamo che approvare tale avveduta strategia.
Si potrebbe forse opinare sulla qualifica di “
Fossil Gardens” come opera
avantgarde, dal momento che, più che in avanti, volge lo sguardo al passato, rinunciando a spingersi verso orizzonti inesplorati. D’altro canto, se i risultati di una simile parabola artistica involutiva sono questi, ben venga la regressione.
Credo proprio che un posticino nella mia
top ten di fine anno sia riservato…