Da quando nel 1989
Axel Rudi Pell si è messo in proprio, dopo l'avventura con gli Steeler, ha messo in cascina venti dischi di inediti, sei raccolte di ballad, cinque dischi dal vivo e pure un paio di raccolte e album di cover.
Una formazione davvero solida e stabile nel tempo, la stessa ormai da 10 anni, quando
Bobby Rondinelli ha sostituito Mike Terrana su "Into The Storm", con il fido
Volker Krawczak che è al suo fianco del chitarrista tedesco sin dall'esordio (e ancora prima sui primi due dischi degli Steeler) mentre
Johnny Gioeli e
Ferdy Doernberg erano entrati nel gruppo con "Oceans Of Time" del 1998.
Sì, davvero solidi e come già ribadito più volte in occasione delle loro precedenti loro uscite anche "
Risen Symbol": "
...non schioda di una virgola lo stile del biondo chitarrista tedesco...", ma che questo sia un limite o un pregio, beh... come diceva Quelo: "
la risposta è dentro di te epperò è sbagliata".
Certo che titoli come "
The Resurrection" e la seguente "
Forever Strong" sembrano sintomatici della volontà di dare un segnale della propria presenza e garanzia di continuità, ribadito anche musicalmente, visto che l'appena citata "
Forever Strong" parte ben determinata e frontale, uno degli episodi più pesanti all'interno della loro nutrita discografia, malmenato del drumming di
Bobby Rondinelli e preso per le vesti da un
Johnny Gioeli su di giri, mentre
Axel Rudi Pell tiene a freno la sua chitarra, limitandosi ad un tagliente ma misurato assolo piazzato nella porzione finale dei brano. I toni si fanno più morigerati con "
Guardian Angel", mid tempo hardeggiante ed anthemico ancora preso per mano da
Gioeli, almeno finché il vocalist di Brooklyn non lascia campo libero alla chitarra dell'indubbio leader della band.
E se Hard Rock doveva essere, che Hard Rock sia, e per suggellare al meglio questo patto, ecco che i nostri vanno a scomodare, ma non è una novità, nientemeno che i Led Zeppelin con un rifacimento di "
Immigrant Song", e pur di fronte ad un classico così iconico riescono a non sfigurare. Non troppo almeno.
Se il titolo poteva far pensare ad un brano malinconico o a una ballad, "
Darkest Hour" rivela invece un forte carattere e un piglio ottantiano, e a mio parere si segnala come uno dei pezzi più riusciti del disco. Ma il pezzo atmosferico (alla "Gates of Babylon" dei Rainbow) era proprio dietro l'angolo: "
Ankhaia", con le sue soluzioni esotiche ed un insisto guitarwork che, tuttavia, non disdegna quella ruvidezza di fondo che pare permeare l'intero "
Risen Symbol", scelta che rappresenta un, seppur minimo, segno di discontinuità con il recente passato. E a proposito di suoni ruvidi eccone un altro assaggio con la briosa "
Hell's on Fire" con cui ci scuotono prima di sciogliersi nel burro con i suoni languidi di una "
Crying in Pain" a mio parere tirata per le lunghe e fin troppo autoindulgente. Pronto riscatto nel finale, soprattutto con la muscolare "
Right on Track" e in parte grazie anche alla conclusiva "
Taken by Storm", dove viene nuovamente messa a frutto la lezione appresa dai numi tutelari Rainbow, anche se non al pari di passati episodi come "Casbah", "Black Moon Pyramid" o "The Curse of the Damned".
"
Risen Symbol" è indubbiamente quello che ci si poteva attendere da
Pell e soci, che ancora una volta non escono dalla loro comfort zone, magari con un pizzico di grinta in più, ma ancora una volta lasciandoci la sensazione di una band che ormai viaggia con il pilota automatico ("
Otto"?) inserito.
A voi la scelta se prendere o lasciare.
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