Trovo sempre arduo scrivere degli
Oceans of Slumber, compagine a mio avviso prodigiosa che tuttavia, ad oggi, ha saputo raccogliere meno di quanto avrebbe meritato.
Inevitabile effetto collaterale del loro eclettismo, dell’intrinseca complessità strutturale di una proposta così ricca di influenze diverse?
Oppure colpa di un mercato di riferimento in cui appare sempre più forte la volontà di incasellare, comprimere, ridurre il respiro di ogni proposta artistica ad un breve soffio di pochi istanti, ad uno sfuggente refolo di brezza da dare in pasto, sotto forma di singolo, di anteprima, di
lyric video, ad un bacino di ascoltatori dalla soglia di attenzione media ormai pari a quella di un bonsai?
Sorvolando sui dilemmi da
boomer, ci tengo a tranquillizzare sin d’ora gli estimatori del combo statunitense: l’architrave su cui il progetto si poggia, ossia l’impareggiabile connubio tra la coloritura timbrica della cantante
Cammie Gilbert e la potenza espressiva del
drumming del marito
Dobber Beverly, non mostra il benché minimo segno di cedimento o obsolescenza, anzi.
Sempre in tema di rassicurazioni: i Nostri, a fronte dei riscontri non commisurati al valore di cui sopra, non si sono affatto scoraggiati, ma anzi sembrano aver profuso nella loro ultima creatura discografica una cura, un’attenzione ed una passione ancora maggiori che in passato.
Così, dopo un
album nel complesso “morbido” come "
Starlight & Ash” del 2022, in cui il
sound si adagiava su tessuti sonori dalle fogge malinconiche, assistiamo qui ad una decisa virata verso lidi contraddistinti da maggiore asprezza (basti pensare all’inedito, e tutt’altro che parsimonioso, utilizzo delle
vocals in
growling). Soprattutto, in “
Where Gods Fear to Speak” si percepisce un significativo ampliamento dello spettro compositivo e delle soluzioni di arrangiamento, il che conduce a brani spesso cangianti, animati da pulsioni emotive molto diverse tra loro -se non, addirittura, in contrasto tra loro-.
In sede di
bio si è tentato di riassumere il tutto con la pur calzante definizione di
Dark Cinematic Metal, ma vi basterà posare per pochi istanti le orecchie sulla
title track che inaugura le ostilità per capire come la faccenda sia ben più complessa.
Mai come oggi, infatti, le influenze
doom,
southern gothic,
progressive,
dark e
death hanno convissuto, si sono compenetrate, si sono rincorse a perdifiato per giungere infine ad un -pur instabile- punto di sintesi.
Il livello, come sempre, è altissimo in ogni comparto -esecuzione, produzione,
lyrics-, ed in ragione di ciò non si perde mai l’orientamento nelle molteplici sfaccettature del
platter, né si smarriscono brandelli di interesse nei suoi continui cambi di direzione o nel suo tortuoso incedere.
Al tempo stesso, nonostante i collanti naturali forniti dalla eccezionale qualità e dal suggestivo
concept (tratteggiato come una sorta di colonna sonora per una pellicola immaginaria di stampo post-apocalittico, a cavallo tra “
The Handmaid’s Tale”, “
Blade Runner”, “
The Book of Eli” e “
The Road”), discutiamo comunque di un lavoro tutt’altro che immediato, orgogliosamente lontano anni luce da ogni velleità di semplificazione volta a sedurre qualche occasionale.
Io stesso, che apprezzo ed ascolto con assiduità gli
Oceans of Slumber da quasi un decennio, ho impiegato almeno 4-5 passaggi in cuffia, dedicati ed attenti, per iniziare a cogliere davvero l’enorme potenziale del loro sesto
full length.
La verità, almeno ai miei occhi, è che questo impianto sonoro così identitario e stratificato, cela al suo interno una particella di mistero, una qualità intrinsecamente inafferrabile ed elusiva. Il che, se da un lato ne corrobora la cifra artistica e ne alimenta il fascino e la suggestione, dall’altro ne tarpa in modo inesorabile le velleità commerciali.
Sarà dunque questo il disco della svolta?
Temo di no, ma mi auguro con tutto il cuore di sì.