Dopo aver tentato di ripescare dall’oblio i
Ghost britannici, mi preme segnalare al pubblico di
Metal.it, un altro caso di omonimia che non ha ricevuto, stavolta davvero “criminalmente”, l’attenzione che avrebbe meritato.
Si tratta di una formazione di Nashville, che ha deciso poco felicemente di chiamarsi
Paradise Lost e, soprattutto, ha avuto l’ardire di cercare una via “personale” nelle pieghe dell’
hard n’ heavy, inserendo nei dogmi del genere architetture
prog e squarci di
new-wave, ammantando poi il tutto con atmosfere magniloquenti, misteriose e “fantascientifiche”, in un cangiante crogiolo sonoro intriso di emozionanti chiaroscuri.
Una sorta di
mélange tra Rush, Yes, Simple Minds, Fates Warning e Sacred Blade, definizione che, sebbene già abbastanza “avventurosa”, non rende tuttavia pienamente giustizia ai contenuti di “
Paradise lost”, al tempo stesso debutto e canto del cigno (almeno finora …) della formazione statunitense.
Pubblicato nel 1990 dalla
MCA Records, il disco è un autentico saliscendi emozionale, inaugurato da una “
Scheme of things” che conduce l’astante in un universo contemporaneamente algido e appassionato, in cui le chitarre squarciano lo scenario eroico alimentato dal fondale tastieristico di
Mark Seely e dalla voce vagamente
Geddy Lee-esca di
David Privett.
Nella successiva “
Shelter” Il clima diventa più fosco e leggiadro, fomentato da incantevoli trame di retaggio
prog-rock, mentre con “
Dark horse” il gruppo arriva a far prosperare nell’impasto sonico sagaci colture di
post-punk, ottenendo un favoloso ibrido espressivo, lo stesso che ritroveremo declinato in "
Someday”, con il suo cantato istrionico e le pulsazioni ritmiche decadenti, e poi ancora nell’enfatica “
Cities in the night”, nell’inquieta “
On my way back home” e nelle avvolgenti schizofrenie di “
Riding elevators”.
Grazie alla sua melodia estremamente evocativa, “
Light the dark sky” rappresenta probabilmente l’acme emozionale dell’albo, ma anche le stratificazioni vocali e l’atmosfera maestosa di “
Dream of love” garantiscono scosse sensoriali e brividi d’ammirazione assai imponenti, al pari di una “
Ashes and gold” che riesce ad essere accessibile senza rinunciare alla creatività.
Con il rosario sgranato nelle profondità del cosmo “
In the end” si conclude un viaggio straniante, formalmente “imperfetto” forse, e tuttavia edificato su quella fascinosa forma d’incompiutezza artistica che sa emozionare e “raccontare” qualcosa di coraggioso, sfidando le convenzioni.
Una sfida che i nostri, scomparendo dalle scene, hanno purtroppo apparentemente “perso” … ma non è mai troppo tardi per una doverosa rivincita, dal momento che si sono recentemente riformati con la denominazione (per evitare fraintendimenti e problemi vari)
Paradise Regained, meritandosi il mio (e spero non solo …) vigile e ansioso monitoraggio.
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