Il terzo
album dei
Wake The Nation è un bel miscuglio di varie sfumature di
hard melodico, verosimilmente orientato ad accontentare una platea piuttosto ampia di appassionati del genere.
Un intento che se da un lato attesta l’encomiabile volontà dei finnici di non fossilizzarsi in un’unica soluzione espressiva, dall’altro rischia di far apparire il programma un po’ dispersivo e di diluire le migliori qualità dei nostri, che personalmente ritengo condensate nelle costruzioni melodiche più ariose e levigate, d’estrazione tipicamente
AOR.
Ciò non toglie che anche in altre direzioni musicali il gruppo sappia muoversi con perizia e ispirazione, ma se, per esempio, paragoniamo il pur piacevole pragmatismo vagamente “attualizzato” di “
Alive” con il clima adescante e vaporoso (un po’ alla Human Temple, per intenderci, la
band precedente del chitarrista
Risto Tuominen) di “
Don’t call me tonight”, quest’ultimo appare decisamente più focalizzato e coinvolgente, in grado di sollecitare in maniera davvero intensa le ghiandole surrenali dei
melomani all’ascolto.
“
Heartageddon” prosegue, così, all’insegna di una certa varietà stilistica, collocando in scaletta un
anthem denominato "
Never say”, che potrebbe piacere ai
fans dei Dynazty o dei Wig Wam, per poi piazzare la prelibatezza Eclipse-
esca "
Bulletproof” e, con "
Wheel of fortune”, tornare felicemente a elaborare fascinose narrazioni
adulte, squisitamente
ottantiane.
Il
groove denso e strisciante di “
Lifesaver” arriva a lambire suggestioni
grunge (qualcuno ricorda i Masquerade di “
Surface of pain”?), e se "
Seven” sublima istrionismi
glam-rock attraverso un
refrain a “presa rapida”, "
Crossroads” conquista i sensi con una splendida costruzione armonica notturna e pulsante.
Dopo l’epicità di “
I can take it all”, solo gradevole, i
Wake The Nation decidono di “sfidare” sul loro terreno preferito altri due protagonisti della scena musicale scandinava: "
The shadows” ammalia come sanno fare i migliori One Desire, mentre "
Cowboyz & call girlz” arriva addirittura a ricordare (soprattutto nel coro) qualcosa dei Ghost, a ulteriore conferma dell’intenzione di rendere eclettica la propria proposta e di allargare il più possibile il
parterre dei potenziali ascoltatori.
Un uditorio che dovrà essere incline ad apprezzare pure le trame
class-metal di “
Hey” e le pulsanti atmosfere elettroacustiche di “
Street of fire”, “roba” forse meno “moderna” e tuttavia sviluppata con notevole abilità e vocazione da un gruppo che, giunto ad elaborare un suono già piuttosto interessante, potrebbe “crescere” ulteriormente traducendo la sua prestazione artistica in una forma sonora maggiormente compatta ed equilibrata.
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