Il
Reverendo, dopo la brutta situazione in cui si trova implicato – mi riferisco, ovviamente, alle ultime vicende giudiziarie che lo hanno visto accusato di crimini sessuali –, da cui non sappiamo se riuscirà ad uscire indenne, rilascia tramite la
Nuclear Blast, proprio in questi giorni di fine novembre 2024, il suo dodicesimo full-length:
"One Assassination Under God".
C'è aria di vendetta, come non vi era dai tempi del massacro della Columbine High School: ed è in questa direzione che si apre l'opera, con la
"Title-track" contraddistinta da un andamento lento e un riff Nu metal/Industrial tipicamente anni '90. Tuttavia, sono assenti le tempeste di acciaio che contraddistinguevano gli episodi più intransigenti di
"Holy Wood" (2000), e ancor di più la rabbia nera, anti vitale, presente in
"Antichrist Superstar" (1996). Mentre siamo indubbiamente su territori più affini a
"Mechanical Animals" (1998), benché con un mood più oscuro, claustrofobico e intimista.
Il Reverendo si muove tra i classici suoni Industrial ereditati dai
NIN, riffoni Grunge e Nu metal e tanto, tantissimo Post-punk / New wave incardinato nel solco di
The Cure,
Killing Joke e
Joy Division; con preziosi ricami elettronici, dai tratti piuttosto limpidi, avvolgenti e misteriosi, nella direzione del Krautrock di
Kraftwerk, e del misticismo cosmico dei
Tangerine Dream. Dove comunque sia, nell'insieme, trovano ampio respiro dinamiche easy listening, talvolta perfino delicate in cui, come di consueto, lo spettro del
Duca bianco riaffiora dall'oblio.
Manson, come di frequente avviene, indossa nuovamente i panni della vittima – e talvolta lo è stato realmente; e dal canto mio, da "affezionato", confido che lo sia anche stavolta. Un abito che porta egregiamente, e dal quale riesce a trovar la forza per i suoi attacchi, pur con una palese sofferenza. Questi tuttavia sono gli effetti collaterali di una vita artistica – e non solo – trascorsa con il mitra in mano: ma di questo
Brian Hugh Warner è soggetto ben consapevole.
La rabbia si avverte, è palpabile, così come lo è il dolore causato dal ritrovarsi, nuovamente, nei panni di colui che deve essere giustiziato, in nome di una morale spesso ipocrita e dettata da interessi anonimi. Nonostante ciò, il dispiacere si crogiola in un'accettazione di sé quasi compiaciuta: "se non posso essere un eroe, prenderò gusto a essere il
"Villain"".
Born Villain: non lo ha mai nascosto (queste sono mie interpretazioni, non frasi di M.M.)
Mentre l'odio esce fuori con prepotenza nelle note di
"Nod If You Understand", e in altri sporadici frangenti, dove un certo impatto resta garantito; nell'insieme, altresì, questo appare dosato e calibrato con perizia chirurgica.
È un
Marilyn Manson a denti stretti, con i suoi demoni e la loro proiezione sul mondo – ormai, con gli eventi ultimi, divenuto probabilmente un demone reale – che si sostanziano in un unico corpo. Bensì l'artista non si scompone, tutt'altro, con agilità ed eleganza si divincola tra tutti gli snodi migliori del suo repertorio, seguendo il fil rouge della
"sottigliezza". Transitando con disinvoltura da brani più raffinati, ad altri più immediati, dove in taluni la sua voce, tendenzialmente filtrata, diviene viscosa come il miele. Questo, in particolar modo, quando si denuda degli artifizi moderni, manifestandosi nel suo disarmante e decadente fascino; mentre intesse linee catchy come in
"Meet Me In Purgatory", o tonalità più squillanti, accostabili vagamente al folclorismo tedesco di
"The Golden Age of Grotesque" (2003) – mi riferisco alla conclusiva
"Sacrifice Of The Mass".
Resta da segnalare che la produzione si attesta su livelli altissimi, nuovamente realizzata dal chitarrista
Tyler Bates, ormai insieme a Manson fin dai tempi di
"The Pale Emperor" (2015).
Questo nuovo LP cambia direzione rispetto ai precedenti lavori; la matrice Blues, tanto forte in
"The Pale Emperor" – che già via via era andata scemando nei due successivi – è perlopiù assente, ricongiungendosi – pur nella direzione da me specificata – con l'elettronica e l'Industrial delle opere della prima parte della carriera. Bensì, con una dimensione intima, integralmente raccolta sul proprio Sé; la quale, personalmente, solo per questo specifico aspetto, mi ha ricordato i tempi di
"Eat Me, Drink Me" (2007).
"One Assassination Under God" – a cui sembrerebbe dover seguire un secondo e ultimo capitolo – è un disco estremamente piacevole e interessante; caratterizzato da svariate soluzioni "sperimentali" su cui, a mio giudizio,
Manson farebbe bene a soffermarsi nel futuro prossimo. Poiché, per quanto qui si rimanga su tracciati già consolidati durante la sua lunga carriera artistica, vi sono molteplici spunti che, pur nella loro stretta aderenza a tali tracciati, riescono a lasciare intravedere uno sguardo artistico diverso: una possibilità di confluire in una prospettiva meno scontata del medesimo, e ormai ampiamente esplorato, orizzonte musicale.
Bentornato Reverendo.
"There's no more dreams for me to sell
I choose my nightmares wisely
Don't wanna ruin the story
But it doesn't turn out well"
Recensione a cura di
DiX88