Francesco Marras è un’eccellenza italiana, riconosciuta a livello internazionale.
Un dato assodato, soprattutto grazie alla sua militanza nei Tygers of Pan Tang, ma utile da ribadire anche in tempi in cui la credibilità del
rock italico non è più un’eccezione (la mia anagrafe,
ahimè, mi consente di ricordare lo “stupore” di pubblico e critica stranieri per le origini, ad esempio, di un
Alex Masi o di un
Fabio Del Rio …) ed è doverosamente accreditata a livello globale senza pregiudizi di sorta.
Ricordando che la suddetta prestigiosa reputazione è frutto anche di altre importanti esperienze professionali (Screaming Shadows, Revolution Road, … e una miriade di collaborazioni …), non è da trascurare nemmeno la sua carriera da “solista”, giunta alla quarta pubblicazione discografica.
“
Out of the fire”, vanta un bel
parterre di ospiti, soprattutto vocali, attentamente “selezionati” per assecondare le diverse sfumature delle composizioni, devote alla
Grande Storia dell’
hard n’ heavy (
Dio, Rainbow,
Ozzy,
Y. J. Malmsteen, Impellitteri, …), di cui l’artista sassarese è un ispirato esegeta.
Il suo
guitar-work, sebbene contraddistinto da una variegata gamma espressiva, è sempre molto “funzionale” all’efficacia dei brani, lasciando ad altri l’elaborazione di trattati di ridondanza sonora e velocità esecutiva fine a sé stessa, evitando al contempo di cadere nella trappola delle elucubrazioni sperimentali ed enigmatiche.
Aggiungiamo una prestazione dietro al microfono per nulla intimidita dalla presenza di rappresentanti della fonazione modulata così autorevoli, ed otteniamo un albo piuttosto “classico” nelle intenzioni artistiche e non per questo fastidiosamente ovvio e ripetitivo, capace com’è di sviluppare i consolidati schemi del genere con intelligenza e innata attitudine.
Peculiarità evidenti fin dall’apripista “
Carnival of darkness”, che affida all’ugola di
Gianni Pontillo (Victory) un bel carico di
riff cromati e
solos taglienti, avvolti da una costruzione melodica piuttosto incisiva.
Passando alla
title-track dell’opera e alla
grunge-esque “
Through my veins” (qualcosa tra
Richie Kotzen e i Soundgarden …), in cui è il
bouzouki di
Marco Garrucciu a rappresentare il principale contributo “esterno”, il clima sonoro diventa più inquieto ed evocativo, a conferma di una cultura musicale ampia e multiforme.
Un patrimonio di conoscenze che, ascoltando “
Lost souls”, include di certo Whitesnake e Rainbow, i quali per essere omaggiati in maniera proficua hanno bisogno di un adeguato catalizzatore canoro, ruolo che
David Readman (Pink Cream 69, Voodoo Circle, …) incarna senza titubanze.
A chi predilige soluzioni metalliche vulcaniche e
anthemiche è dedicata “
Rise from the ashes”, mentre con la maestosa “
Cyber lust” è inevitabile aggiungere i Led Zeppelin tra gli autorevoli influssi della raccolta, esaltati dalla “solita” prestazione di spessore di
Jacopo Meille (Mantra, Sainted Sinners, Tygers of Pan Tang, …).
“
Code red” rimpingua ulteriormente le quote di
metallo di classe concesse a “
Out of the fire”, lasciando a “
Soldiers of the light” il compito di allettare l’astante attraverso cadenze fosche e solenni, ben gestite dalla valente ugola di
Daniele Ledda (Twilight Zone).
“
Here and now” colpisce per una melodia particolarmente intrigante e anche la conclusiva “
More than life”, in cui
pathos e ficcanti guizzi chitarristici si combinano ad arte, ratifica in modo inequivocabile l’impressione di essere al cospetto di un disco concepito e realizzato con grande cura, ispirazione e acume, uno di quelli, insomma, che tutti gli appassionati del settore non dovrebbero proprio lasciarsi sfuggire.