Copertina 8

Info

Anno di uscita:2025
Durata:40 min.
Etichetta:Bonebag Records

Tracklist

  1. HOLY GROUND
  2. DIRT
  3. SPEED OF LIFE
  4. SHEEP
  5. WORLD PAIN
  6. APPETITE
  7. ALIKE
  8. MANTRA
  9. IN MY CITY

Line up

  • Erik Nordström: bass, vocals
  • Martin Sandström: guitars
  • Fredrik Aspelin: drums

Voto medio utenti

Global warning” … un titolo che, a valle dell’ascolto reiterato del disco, sembra perfetto per avvisare tutti i cultori della scena doom / stoner del fatto che nell’ambito c’è ancora spazio per scampoli di “creatività” e che non ci si deve per forza “accontentare” di abili e rigorosi replicanti dei sacri dogmi.
Il mittente di tale risoluta notificazione sono i Möuth, un trio svedese che all’esordio sulla lunga distanza si sottrae con maestria e sorprendente maturità agli schematismi di settore senza per questo snaturare il suono nei suoi fondamenti, riconoscibili nelle strutture ritmiche plumbee e fragorose, nei riff circolari e distorti, nelle divagazioni lisergiche e nel cantato evocativo e salmodiante.
Riuscire, poi, a far convivere questi capisaldi con strutture melodiche veramente coinvolgenti, integra il nobile profilo dei migliori interpreti del genere, a cui i nostri si accostano con ispirata devozione, aggiungendo, però, un orientamento espressivo “aperto”, capace di attingere con innato buongusto anche da grunge, dark-wave e prog-rock.
Ne scaturisce un albo davvero intrigante per tensione emotiva e capacità immaginifica, in cui i suoi autori riescono a far collidere il loro spiccato istinto melodico con una rete di soluzioni armoniche abbastanza ampia, denotando una forma di sensibilità artistica flessibile e stratificata.
Con tali presupposti, se durante la fruizione dell’opera non è difficile riconoscere in Black Sabbath, Sleep, Monster Magnet, QOTSA e Mastodon alcuni dei plausibili modelli dei Möuth, a “stupire” è il modo in cui le suddette suggestioni sono trattate e miscelate, all’interno di contaminazioni stilistiche sempre equilibrate e persuasive.
Prendiamo l’openerHoly ground” … il sostrato sonoro, compreso il cantato Ozzy-esco di Erik Nordström, è sostanzialmente di marca Sabs, ma l’approccio complessivo alla materia non appare per nulla derivativo, incastrato ad arte con divagazioni progressive e una melodia immediatamente fruibile.
La seguente, incalzante, “Dirt”, aggiunge qualcosa dei Pearl Jam e dei Soundgarden al groviglio di riferimenti, mentre con “Speed of life” la band, grazie al refrain, riesce a rendere “leggera” un’imponente immersione nei meandri dello psych / doom.
Con i suoi quasi sette minuti di durata, “Sheep” avvolge l’astante in una dimensione inquieta, visionaria e frastagliata, che dopo il suggestivo interludio “World pain”, si carica ulteriormente di oscuri presagi in “Appetite”, la celebrazione Sabbath-iana più fedele dell’intero programma.
Ancora storditi dal brano precedente, risulta abbastanza disorientante trovarsi ad affrontare “Alike” e il suo spigliato e decadente clima post-punk, ma si tratta di un turbamento appagante, lo stesso, del resto, che si prova di fronte alle esalazioni vaporose e catartiche di “Mantra”, lasciando, infine, che siano le oblique e incombenti pulsazioni dark di “In my city” a completare la gamma di fascinose suggestioni sensoriali garantite da “Global warning”.
Il “messaggio” inviato dai Möuth all’uditorio di riferimento appare, dunque, chiaro, forte ed eloquente, e per quanto riguarda il carattere “globale” dello stesso, credo che forse solo i rockofili più intransigenti non sapranno accoglierlo con l’attenzione e l’adesione che merita.
Recensione a cura di Marco Aimasso

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