“
Global warning” … un titolo che, a valle dell’ascolto reiterato del disco, sembra perfetto per avvisare tutti i cultori della scena
doom /
stoner del fatto che nell’ambito c’è ancora spazio per scampoli di “creatività” e che non ci si deve per forza “accontentare” di abili e rigorosi replicanti dei sacri dogmi.
Il mittente di tale risoluta notificazione sono i
Möuth, un trio svedese che all’esordio sulla lunga distanza si sottrae con maestria e sorprendente maturità agli schematismi di settore senza per questo snaturare il suono nei suoi fondamenti, riconoscibili nelle strutture ritmiche plumbee e fragorose, nei
riff circolari e distorti, nelle divagazioni lisergiche e nel cantato evocativo e salmodiante.
Riuscire, poi, a far convivere questi capisaldi con strutture melodiche veramente coinvolgenti, integra il nobile profilo dei migliori interpreti del genere, a cui i nostri si accostano con ispirata devozione, aggiungendo, però, un orientamento espressivo “aperto”, capace di attingere con innato buongusto anche da
grunge,
dark-wave e
prog-rock.
Ne scaturisce un albo davvero intrigante per tensione emotiva e capacità immaginifica, in cui i suoi autori riescono a far collidere il loro spiccato istinto melodico con una rete di soluzioni armoniche abbastanza ampia, denotando una forma di sensibilità artistica flessibile e stratificata.
Con tali presupposti, se durante la fruizione dell’opera non è difficile riconoscere in Black Sabbath, Sleep, Monster Magnet, QOTSA e Mastodon alcuni dei plausibili modelli dei
Möuth, a “stupire” è il modo in cui le suddette suggestioni sono trattate e miscelate, all’interno di contaminazioni stilistiche sempre equilibrate e persuasive.
Prendiamo l’
opener “
Holy ground” … il sostrato sonoro, compreso il cantato
Ozzy-esco di
Erik Nordström, è sostanzialmente di marca
Sabs, ma l’approccio complessivo alla materia non appare per nulla derivativo, incastrato ad arte con divagazioni
progressive e una melodia immediatamente fruibile.
La seguente, incalzante, “
Dirt”, aggiunge qualcosa dei Pearl Jam e dei Soundgarden al groviglio di riferimenti, mentre con “
Speed of life” la
band, grazie al
refrain, riesce a rendere “leggera” un’imponente immersione nei meandri dello
psych /
doom.
Con i suoi quasi sette minuti di durata, “
Sheep” avvolge l’astante in una dimensione inquieta, visionaria e frastagliata, che dopo il suggestivo interludio “
World pain”, si carica ulteriormente di oscuri presagi in “
Appetite”, la celebrazione
Sabbath-iana più fedele dell’intero programma.
Ancora storditi dal brano precedente, risulta abbastanza disorientante trovarsi ad affrontare “
Alike” e il suo spigliato e decadente clima
post-punk, ma si tratta di un turbamento appagante, lo stesso, del resto, che si prova di fronte alle esalazioni vaporose e catartiche di “
Mantra”, lasciando, infine, che siano le oblique e incombenti pulsazioni
dark di “
In my city” a completare la gamma di fascinose suggestioni sensoriali garantite da “
Global warning”.
Il “messaggio” inviato dai
Möuth all’uditorio di riferimento appare, dunque, chiaro, forte ed eloquente, e per quanto riguarda il carattere “globale” dello stesso, credo che forse solo i
rockofili più intransigenti non sapranno accoglierlo con l’attenzione e l’adesione che merita.