Una certa militanza
rockofila mi suggerisce costantemente di diffidare delle note promozionali con cui le etichette discografiche sostengono i loro protetti, ma stavolta, laddove la
Icons Creating Evil Art definisce l’albo di debutto di
Cammie Beverly “
un’esperienza”, non credo proprio si possa parlare di un espediente all’insegna dell’iperbolica propaganda.
E dirò di più … sebbene la
vocalist americana sia tutt’altro che una “sconosciuta” della scena (forte di una fama legata innanzi tutto agli Oceans Of Slumber, senza però dimenticare contributi di prestigio a Swallow the Sun, Necrofier e Ayreon …), ritengo che questo “
House of grief” possa, qualora accolto con la doverosa considerazione, elevare enormemente la sua statura artistica nell’ambito delle figure femminili in grado di contribuire ad arricchire il nobile retaggio del
Rock.
Un ruolo magari non esattamente “facilissimo” da riconoscere, ma solo perché si dipana attraverso un disco davvero intenso, oscuro e doloroso, dove la laringe di
Cammie si staglia su esposizioni musicali piuttosto minimali che attingono dal
dark-rock, dall’
alt-pop, dal
soul e dalle radici ancestrali del
folk e del
blues.
Una formula sonora straordinariamente efficace nelle mani di una cantante che non teme di mostrare anche gli anfratti più profondi della sua anima e diffonde, tramite un’intensità emotiva straordinaria, un dedalo di sentimenti quali angoscia, passione, redenzione, nostalgia e imperiosi desideri.
L’ideale situazione d’ascolto in questi casi prevederebbe di chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare dall’impetuosa onda sensoriale e tuttavia cercherò comunque di fornire al lettore qualche (probabilmente superflua …) indicazione supplementare sui contenuti dell’opera, a cominciare da una
title-track che si sgrana come un rosario
gospel dagli accenni
trip-hop, recitato in forma comunitaria da
Florence Welch e
Sinéad O'Connor.
Piccole suggestioni comparative fatalmente parziali e soggettive che, proseguendo nel medesimo
mood, consentono di materializzare l’istrionica effige di
Björk nei liquidi e sinistri saliscendi elettro-orchestrali di “
For the sake of being” e di affidare la maliosa “
Running” a chi ama le ambientazioni
symphonic-gothic prive di orpelli e sovrastrutture.
“
Paraffin” è semplicemente “impressionante” nel suo strisciante, delicato e mistico svolgimento e una sensazione analoga la procurano anche le frastagliate scorie
techno-soul di “
Another room” e la desolata ballata ”
Rivers”, in cui si scorge a tratti l’immarcescibile lezione comunicativa delle maestre
Patti Smith e
PJ Harvey.
L’incedere circolare e placido concesso a “
Kiss of the moon” avvolge l’astante in un bozzolo torpido e straniante e, alla riapertura delle palpebre, non rimane che rendersi conto di quanto si possa restare “sopraffatti” di fronte ad una manifestazione espressiva tanto spoglia ed “esposta” quanto imponente sotto il profilo emozionale … merito della voce camaleontica e dell’inquieta personalità di una grande
Artista.
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