Più si allunga la
Storia del
Rock e più, anche a causa di una certa carenza di “rimpiazzi” adeguati, la scena di riferimento risulta popolata di “veterani”.
Una situazione a cui siamo assuefatti e che, se escludiamo il sostanziale problema della “conservazione della specie”, non è necessariamente negativa, almeno dal punto di vista della fruizione musicale.
Fortunatamente, infatti, non sono moltissimi i
senior che farebbero meglio ad accettare il
buen retiro come una decorosa soluzione per non rovinare la loro nobile effigie nella memoria dei
fans e nella maggioranza dei casi ci si trova di fronte a dignitosi rappresentanti del settore.
C’è, poi, anche una ristretta cerchia di artisti piuttosto “maturi” per i quali il tempo sembra trascorrere in maniera diversa dagli altri esseri viventi e tra questi mi sento d’includere
Robin McAuley, un “signore” che nonostante le primavere e le vicissitudini professionali (verosimili, per uno, per esempio, che ha dovuto convivere con l’
ego del genio
Michael Schenker …) ha magicamente conservato una vitalità espressiva e una forma vocale davvero smaglianti.
Giunti al terzo albo solista per
Frontiers Music, dopo aver constatato tale confortante e “sorprendente” integrità, all’ammiratore “storico” (quale sono …) del
vocalist irlandese non rimane che valutare se il resto del comparto esecutivo e, soprattutto, compositivo, sarà all’altezza della situazione, riproponendo (o superando …) la brillantezza di “
Standing on the edge” o invece destando le medesime perplessità del precedente “
Alive”.
Ebbene, “
Soulbound”, supportato da una
backing band quasi del tutto nuova (con la conferma del solo
Andrea Seveso e l’ingresso di
Alessandro Mammola,
Alfonso Mocerino, Antonio Agate e
Aldo Lonobile … tutta “gente” di comprovata affidabilità), intanto, è un disco maggiormente grintoso dei suoi predecessori, in cui il coefficiente squisitamente “adulto” è abbastanza circoscritto e comunque inserito in un contesto sonoro piuttosto prestante.
La melodia è tuttavia ancora una volta il collante dell’intero programma e conquista, come accade nel
class-metal Scorpions-
esco “
Wonders of the world”, nelle pulsazioni ficcanti e dense di "
Bloody bruised and beautiful” e nell’accattivante “
Paradise”, quando il suo bilanciamento con la componente energica è ben coordinato e incisivo.
Meno efficace appare il suddetto connubio nel clima enfatico della
title-track, mentre sul versante più “
in your face” piace l’ardore Van Halen-
iano della sferragliante "
The best of me” e anche l'
hard-blues “
Let it go”, sebbene non particolarmente caratterizzato, risulta parecchio attraente.
Tra i brani riusciti inserisco pure la brumosa “‘
Til I die” e la vagamente
grungy "
One good reason”, due sagaci soluzioni soniche utili ad arricchire d’intriganti sfumature un canovaccio espressivo non proprio “imprevedibile”.
Affidiamo, infine, la simil-ballata “
Crazy”, la solenne “
Born to die” e la ruggente “
There was a man” alla sezione “piacevolezze riempitive” di una raccolta che si lascia ascoltare senza troppi cali d’interesse.
La voce e la capacità interpretativa sono pressoché intatte, la competenza esecutiva non è in discussione, magari solo le canzoni non sono esattamente le migliori con cui
Robin McAuley ha avuto a che fare nella sua luminosa e corposa carriera … ciononostante credo che “
Soulbound” non sarà nel complesso una delusione per i fedeli seguaci di quello che rimane, anche nel 2025, un
guru della fonazione modulata.