Insieme alla fantascienza, una delle loro fissazioni era il moniker formato da tre parole. La prima incarnazione, datata 1967, si chiama infatti Soft White Underbelly e prende vita a Long Island, New York. Il nucleo è formato da Donald “Buck Dharma” Roeser alla chitarra ed Albert Bouchard alla batteria, con loro tra gli altri il critico/giornalista Richard Meltzer che in seguito collaborerà come autore di testi.
Passano un paio d’anni ed il gruppo diventa Stalk-Forrest Group, mentre sono arrivati il cantante Eric Bloom, il chitarrista-tastierista Allen Lanier ed il fratello di Bouchard, Joseph, al basso. Nel frattempo la formazione si è fatta largo nel circuito Newyorkese ed è stata scritturata dalla Elektra, per la quale produce parecchio materiale rimasto poi inedito fino a tempi recenti.
Finalmente al principio dei ’70 si verifica la svolta decisiva grazie all’intervento del vecchio amico giornalista Sandy Pearlman, il quale oltre a diventare manager della band nonché co-autore di numerosi brani, procura un nuovo e miglior contratto con la Columbia. E’qui che il moniker diventa Blue Oyster Cult, forse ispirato al dio Greco Krono, quindi nel 1972 esce l’album di esordio.
Questa in breve l’origine del gruppo che molti considerano l’antesignano del moderno heavy metal.
Uno stile ermetico e tagliente come la lama di un coltello, canzoni intrise di gelida oscurità e quasi flemmatiche, in antitesi con l’irruenza confusionaria della maggioranza dei colleghi hard. Mentre gli altri sbandierano un onesto ma primitivo “sex & drug & rock’n’roll”, i B.O.C. trattano temi visionari, intimisti e fantascientifici proponendo un atteggiamento nuovo, colto, distaccato e misteriosamente affascinante, che anticipa i tempi delle emarginate nevrosi metropolitane ed apre una strada che si allontanerà sempre più dal concetto di rock gioioso, aggregativo, ingenuamente felice della sua semplicità fracassona e ruspante.
Inizialmente di quest’album colpisce l’impatto proto-metallico, bruciante e selvaggio, del classico “Cities on flame with rock and roll” in possesso di uno di quei riffs che passano alla storia e vengono clonati da centinaia di formazioni, oppure la commovente tenerezza lunare dell’altrettanto celeberrima “Then came the last days of may”, nostalgica ballata che sembra sostenuta da un delicato alito di vento. Ma approfondendo l’ascolto emerge che la vera forza dei B.O.C. si esprime nelle trame ingannevolmente pacate di “Transmaniacon MC” a mascherare un inno cattivo e scorretto dedicato ai bikers di Altamont, nelle stravaganti cadenze che si susseguono in “Before the kiss, a redcap”, nel chitarrismo nitido e raggelante di “I’m on the lamb..”,”Screams” e della spaziale “Workshop of the telescope”.
Un approccio diverso all’hard rock dove tecnica, intelligenza ed una bella dose di strisciante malignità si amalgamano in un sound proiettato verso un futuro di alienazione urbana e di clangori metallici.
Dove i Grand Funk, ad esempio, sono l’energumeno manesco che ti affronta a viso aperto mulinando le braccia forzute, i B.O.C. sono l’implacabile e spietato killer che liquida la propria vittima senza nemmeno sgualcirsi il vestito.
Il loro debutto è stato il primo capitolo di una serie di lavori eccezionali, culminata e terminata dallo strepitoso doppio live “On your feet or on your knees”, uno dei più bei dischi dal vivo di sempre. Peccato che in seguito i B.O.C. abbiano virato verso un hard sempre più melodico e patinato, arrivando a lambire i territori Aor e rinunciando di fatto al ruolo di innovatori e di conseguenza ai fans della prima ora.