In campo hard rock vi sono stati casi di formazioni che hanno legato indissolubilmente la propria fama ad uno specifico album, addirittura ad un singolo brano, non riuscendo più in seguito a ripetere il successo di quel fortunato episodio. Penso ad esempio agli Mc5 ed il loro “Kick out the jams” oppure sul versante melodico ai Survivor di “Eye of the tiger”, ma uno dei casi più eclatanti è stato quello degli Iron Butterfly. La band cominciò a farsi notare intorno alla metà degli anni ’60 suonando nei locali frequentati dalla comunità hippie di Los Angeles, ottenendo subito buon riscontro grazie ad un sound particolare che miscelava sapientemente linee hard discretamente pesanti per l’epoca con ampie aperture classicheggianti, affidate all’organo del leader Doug Ingle, e con una notevole sensibilità pop-melodica. Nel 1967 gli Iron Butterfly pubblicano il loro primo full-lenght “Heavy”, titolo che espone chiaramente le intenzioni musicali del gruppo. L’album è un discreto successo che li porta a dividere il palco con calibri quali Doors e Jefferson Airplane, ma il quartetto ha già in mente il seguito che regalerà loro un posto nella storia dell’hard rock.
Senza lasciar trascorrere neppure il canonico anno dal debutto fanno uscire “In-a-gadda-da-vida”, bizzarro titolo scioglilingua che secondo alcuni sarebbe la storpiatura “in acido” della frase “In a garden of Eden” (ma vi sono altre teorie..), ed il risultato supera ogni più rosea aspettativa. Il disco vola immediatamente ai vertici della classifica di vendita Usa e vi resterà per 140 settimane, delle quali 81 nella Top Ten. Trenta milioni di copie vendute, che oggi grazie alle infinite ristampe presumo saranno ancora di più. Qual è il motivo di questo trionfo? Perché è ancora popolare oggi a più di trent’anni di distanza? Nella prima facciata troviamo cinque ottime canzoni, che non sembrano però possedere le qualità da opera indimenticabile, la vibrazione speciale che rende immortali. “Most anything you want” è una buona apertura hard, un robusto tappeto di tastiere sostiene la pungente punteggiatura della lead, ma in particolare si mette in luce la voce enfatica di Ingle in un brano dai forti connotati melodici. “Flowers and beads” incrementa la vena romantica, uno slow delicato e puro, mentre la lunga “My mirage” pone l’accento su un’atmosfera più cupa, triste, evocativa, con l’organo a fornire tonalità austere quasi da chiesa. Episodio toccante e di indubbio valore.
Con “Termination” ci spostiamo verso territori progressivi, protagonista la chitarra morbida, dal tocco jazzy, del giovane talento Erik Brann all’epoca appena diciottenne. La prima metà del disco si chiude con “Are you happy?”, che parte come pop-rock leggero e quasi scherzoso ma poi si trasforma in una breve jam hard psichedelica dai colori tenebrosi. Il sound diventa sporco, ruvido, con un buon lavoro del drummer Bushy ed un lungo assolo di Brann. E’ l’anticipo di ciò che verrà nella seconda parte. La famosa title-track occupa l’intera facciata, una corposa suite lunga diciassette minuti all’interno della quale i musicisti si lasciano andare ad estesi virtuosismi, improvvisi cambi di ritmo e d’atmosfera, divagazioni psichedeliche, un concentrato antologico dell’hard alla sua origine. Ma ciò che più è fondamentale sono le poche note di un riff memorabile, uno di quelli scolpiti nella pietra che resistono ad ogni attacco del tempo. Di solito è la semplicità, l’essenzialità, ad ottenere questo risultato con l’aggiunta di una vibrazione unica e particolare, non spiegabile a parole, che “In-a-gadda-da-vida” certamente possiede. Per rendere l’idea dell’immediatezza di questo riff possiamo paragonarlo a quello di una “Smoke on the water” o una “Sweet home Alabama”, che meglio di ogni altra canzone ha impersonificato storicamente le bands che li hanno ideati. Riff e ritornello uniti ad un’atmosfera gravida di tensione e carica di strani presagi, vocals tetre e drammatiche, libera improvvisazione strumentale impulsiva e tribale, uno scenario tanto differente rispetto alla prima parte del disco, è la segreta alchimia che ha fatto la fortuna di questo classico hard rock di ogni tempo.
Per chiudere il discorso, come accennato all’inizio del commento gli Iron Butterfly dopo l’immenso successo non seppero dare continuità alla loro carriera, ed a seguito del flop del mediocre “Ball” (1970) si dissolsero improvvisamente e sparirono nell’oblìo. Di loro resta comunque quest’eccelsa testimonianza che non può assolutamente mancare nelle discografie hard rock.
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