Viviamo un’epoca in cui le icone del
rock hanno fatalmente esaurito la loro esuberanza “giovanile” e sono spesso costrette, per molte ragioni, a variare in maniera talmente profonda le loro storiche
line-up da rendere giustificato, e tuttavia utopico, un cambiamento di
monicker.
Aggiungiamo una certa difficoltà nel reperire “rimpiazzi” adeguati ed ecco che di fronte ad una nuova produzione discografica dei luminari del genere ci si trova ad anelare antiche sensazioni, ben consapevoli che il mondo della musica (e non solo quello …) è cambiato e certe magiche combinazioni di suoni e interpreti difficilmente potranno riproporsi con uguale intensità.
Chi, come il sottoscritto, adora i
Giant “originali”, è pienamente cosciente che le versioni più recenti della
band non potranno eguagliare i fasti di “
Last of the runaways” e “
Time to burn” (e ci aggiungo anche “
III”, spesso sottovalutato …) ma allo stesso tempo credo abbia avuto, al netto di ogni altra valutazione di gusto individuale, almeno “l’onestà intellettuale” di considerare sia “
Promise land” e sia “
Shifting time” competenti esempi di
hard melodico “classico”.
Personalmente vado anche oltre, rilevando in entrambi i casi la salvaguardia di brandelli di un
feeling “Gigantesco”, in grado di promuovere anche dal punto di vista espressivo la scelta di mantenere una così gloriosa denominazione.
Arrivati al nuovo “
Stand and deliver”, che rispetto al lavoro precedente vede l’ingresso di in formazione di
Jimmy Westerlund (One Desire), la suddetta sensazione appare confermata e non solo perché alcune tracce sono state scritte da
Dann Huff (l’indimenticabile cantante e chitarrista primigenio del gruppo), in collaborazione con i compianti
Mark Spiro e
Van Stephenson, leggendari coadiutori al sontuoso
songwriting dei
Giant.
Nell’osservazione dell’opera si percepisce la volontà dei protagonisti di conservare il tipico
sound vivido e intenso della
band (in particolare catturata nel periodo “
Time to burn”, per semplificare …) senza per questo eccedere nella pavida pratica del riciclaggio sonoro.
Insomma, se
Kent Hilli si conferma un cantante carismatico, piace parecchio pure l’approccio esecutivo di
Westerlund, raffinato e ficcante erede della nobile tradizione chitarristica del gruppo.
Per quanto riguarda il fondamentale comparto “canzoni”,
beh, esordire con il fascinoso clima notturno di “
It's not right” è certamente un modo eccellente di predisporre ad un ascolto che si accende di pura euforia non appena “
A night to remember”, con il suo contagioso
refrain, conquista il proscenio.
Difficile, poi, non attribuire a “
Hold the night” la levatura melodica di un grande frammento di
rock “radiofonico”
ottantiano, la stessa che, peraltro, si può apprezzare nei chiaroscuri di “
I will believe”.
“
Beggars can't be choosers” aumenta i giri del motore di “
Stand and deliver”, rievocando, in forma invero un po’ blanda, un altro dei tratti distintivi dei
Giant dei
nineties, mentre a “
It ain't over till it's over” è affidato il compito di riportare la scaletta su sentieri più riflessivi ed enfatici, appena debilitati da un pizzico di affiorante manierismo.
La
title-track dell’albo è un’efficace incursione nei pastosi territori dell’
hard-blues, e ritornare all’
AOR con “
Time to call it love” appare stranamente meno entusiasmante di quanto ci si potesse aspettare vista la presenza della blasonata penna di
Spiro e
Dan Huff.
Andiamo meglio con la scalciante “
Holdin' on for dear life” e la
ballatona “
Paradise found”, entrambe frutto della cooperazione con
Van Stephenson, e pure la conclusiva “
Pleasure dome” si ritaglia un posto tra i pezzi riusciti della raccolta, in virtù di vibranti pulsazioni di natura Whitesnake / House Of Lords-
iana.
Il
Gigante non sarà più “esattamente” quello dei “tempi belli” e ha di sicuro perduto un po’ della sua statuaria personalità, ma ha piedi artistici solidi, ben piantati in un
rockrama in cui le sue attuali qualità meritano l’attenzione dei
melomani di ogni generazione.