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Anno di uscita:1969
Durata:44 min.
Etichetta:Atlantic

Tracklist

  1. GOOD TIMES BAD TIMES
  2. BABE I’M GONNA LEAVE YOU
  3. YOU SHOOK ME
  4. DAZED AND CONFUSED
  5. YOUR TIME IS GONNA COME
  6. BLACK MOUNTAIN SIDE
  7. COMMUNICATION BREAKDOWN
  8. I CAN’T QUIT YOU BABY
  9. HOW MANY MORE TIMES

Line up

  • Robert Plant: vocals, harmonica
  • Jimmy Page: guitar
  • John Paul Jones: bass, organ
  • John Bonham: drums

Voto medio utenti

Nell’estate del 1966 mentre il sottoscritto a Torino cominciava ad apprendere i rudimenti dell’alfabeto (avevo ben quattro anni..), a Londra un’imberbe Jimmy Page faceva il suo ingresso negli Yardbirds.
Per carità nessun collegamento imbarazzante, questo serve soltanto a dare una collocazione temporale al discorso. Per quasi tutti i lettori si tratta di archeologia musicale, ma di inestimabile importanza storica perché parliamo delle origini di uno dei più grandi gruppi rock di tutti i tempi. Una delle poche formazioni che ha fornito una spinta realmente decisiva per fare di questo genere un fenomeno di costume planetario.
A quel tempo Page è un giovane talento del rockblues. Il produttore Gomelsky, vera mente degli Yardbirds, lo inserisce nella band che sta spopolando nel Regno Unito a colpi di 45 giri a metà strada tra il blues classico ed il beat-pop allegro ed orecchiabile. Per la verità Page entra come bassista al posto di Paul Samwell-Smith, visto che alla chitarra c’è già un mostro come Jeff Beck, a sua volta sostituto di Eric Clapton passato ai Bluesbreakers di John Mayall.
Comunque serve poco tempo per capire che Jimmy al basso è sprecato, quindi si prova uno schieramento a due chitarre soliste piuttosto insolito per l’epoca. Sorprendentemente si rivela un fiasco totale ed il gruppo sbanda.
Ancora estate, ma del ’68, e gli Yardbirds sono praticamente sciolti, solo Page ed il bassista Chris Dreja tentano di proseguire l’avventura rinominandosi New Yardbirds per una tournèe in Scandinavia. Allo scopo reclutano due componenti della Band of Joy: il vocalist Robert Plant ed il drummer John Bonham. Al ritorno in Inghilterra anche Dreja abbandona e gli subentra John Paul Jones, che ha fama di ottimo arrangiatore oltre che di buon bassista.
A questo punto occorre un nome nuovo, visto che i legami con gli Yardbirds sono tutti recisi. Lo suggerisce Keith Moon, il batterista degli Who: Led Zeppelin.
Così, proprio sul finire degli anni ’60, nasce uno dei gruppi più famosi e gloriosi del rock.
Vere superstars. Milioni e milioni di dischi venduti al cospetto di una discografia di soli otto albums da studio. Migliaia di concerti sold-out in ogni angolo del globo con la presenza di un incalcolabile numero di fans. Films, video, libri, interviste, articoli, programmi tv, pochi possono vantare di aver scatenato il medesimo interesse e lo stesso clamore provocato dai Led Zeppelin nel corso della carriera. La popolarità di quelli che oggi vanno per la maggiore è soltanto una piccola copia sbiadita di ciò che hanno rappresentato gli Zep nel loro primo decennio d’esistenza.
Magica alchimia. Miscela di talento, bravura, tecnica, sensibilità, carisma, bellezza, fortuna, creatività, opportunismo, tenacia e su tutto ed al di là di tutto uno scrigno di canzoni fantastiche.
Ora veniamo a questo debutto del 1969. Già si può cogliere in pieno la doppia anima della band. Le preponderanti radici blues vengono rivestite di elettricità, un suono ancora in parte acerbo ma immediatamente forte, aggressivo e carico di pathos, un’atteggiamento nervoso e ruvido che stravolge lo stile pacato e morbido dei bluesman tradizionali.
Eppure le tracce classiche sono ben tre nell’album, due quelle del saccheggiatissimo Willie Dixon:”You shook me” e “I can’t quit you baby”, arricchite dai memorabili duetti tra la cristallina lead di Page ed i vocalizzi di Plant, esteticamente angelico ma capace di tonalità per l’epoca demoniache. La terza,”Babe, I’m gonna leave you”, è un lentissimo slow che gli Zep interpretano con trasporto sconvolgente, atmosfera di drammatica profondità e romanticismo struggente ma anche solida virilità e forza interiore, brano che ancora oggi ridicolizza le insipide melensaggini moderne.
E’ però con i pezzi potenti e distorti che la band semina i germi dell’esplosione hard che di lì a poco dilagherà in tutto il mondo. Un’estremizzazione di ciò che avevano accennato i Cream, ma con molta più durezza e l’aggiunta di svisate acide e psichedeliche a formare uno stile nuovo ed inconfondibile. “Communication breakdown”, la sulfurea “Dazed and confused”, il monolito gigantesco “How many more times”, sono nella ristretta cerchia delle canzoni indimenticabili entrate a far parte della cultura collettiva. Riffs semplicemente epici, vocals tanto grintose ed incendiarie quanto sensuali e celestiali, assoli torrenziali e funambolici ma sempre funzionali alla struttura della canzone, intervalli liquidi e lisergici che spiazzano l’ascoltatore avvolgendolo in una nube di libera sperimentazione elettrica che sarà il segno distintivo dei Led Zeppelin negli anni a venire.
Tutto questo presentato con tocco aristocratico e gentile, quasi da Lords Britannici, molto differente dalla chiassosa rozzezza della maggioranza dei gruppi contemporanei, basti vedere l’elegante grazia dell’incantevole “Your time is gonna come” che anticipa episodi indimenticabili come “Thank you” o la stessa “Stairway to heaven”.
Non sempre è stata fatta rilevare la bellezza e l’importanza di questo primo capitolo Zeppeliniano, incentrando le attenzioni sui lavori successivi certamente straordinari e meglio definiti, ma si è trattato del primo perentorio passo verso la modernizzazione del rock in senso hard, ciò mi porta da sempre a considerarlo fondamentale per lo sviluppo di questa musica. Con la mia solita vena polemica chiudo il discorso rallegrandomi per il fatto che nel ’69 non era ancora nata la moda dello snobismo ad ogni costo, oggi così seguita dai voraci smanettatori del download, altrimenti “Led Zeppelin I” avrebbe corso il rischio di essere affossato dalla superficialità di chi ascolta musica con la stessa intensità che applicherebbe ad uno studio sulla riproduzione degli ortotteri. Grazie al cielo quella generazione era diversa ed il meraviglioso mondo del rock ha potuto crescere e diventare adulto, anche grazie albums come questo.

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Ultimi commenti dei lettori

Inserito il 25 giu 2015 alle 23:41

...in una dimensione particolare che influisce in modo essenziale sull'heavy metal

Inserito il 15 gen 2015 alle 16:57

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