Quando si parla di hard rock settantiano, dopo i due sacri monumenti Purple e Zeppelin viene solitamente citato il nome degli Uriah Heep, a completare la triade forse più rappresentativa e popolare di questo genere.
Nati sul finire degli anni ’60 dalle ceneri dei Gods e degli Spice, sin dal debutto “Very ‘eavy…very ‘umble” (1970) mettono in mostra una spiccata vena melodica ed una predilezione verso atmosfere eleganti e progressive, con ampio spazio concesso alle tastiere di Ken Hensley che sarà fulcro della formazione Britannica, tra una girandola di cambi di line-up, per tutto il decennio.
Se molti colleghi puntano ad un sound sempre più massiccio e rumoroso, gli Uriah Heep replicano nella direzione opposta, aumentando i passaggi romantici e gli arrangiamenti classicheggianti, e non sono pochi gli esperti che vedono in questo gruppo l’antesignano del pomp-rock e dell’Aor che prenderà piede, soprattutto negli Stati Uniti, durante gli ’80.
Questa tendenza ad allontanarsi dall’interpretazione grezza ed aggressiva dell’hard si evidenzia in parte già con “Salisbury”, secondo lavoro degli Heep che inaugura il miglior ciclo creativo del gruppo proseguito con gli ottimi “Look at yourself”, sempre del 1971, e “Demons and wizards” (1972) che contiene il loro singolo di maggior successo “Easy livin”.
“Salisbury” ha il pregio di bilanciare perfettamente le due anime hard degli Uriah Heep: quella energica e sanguigna espressa nell’opener “Bird of prey”, che venne usata per anni come inizio dei loro concerti, e nella rocciosa “Time to live” di stile classico accostabile ai Deep Purple, e quella melodica e delicata della struggente “The park” impreziosita dalla prestazione di David Byron, vocalist di grande effetto forse un po’ sottovalutato e dimenticato dai critici, e della ballata folk-acustica “Lady in black”.
Ma il massimo sforzo si concretizza nella seconda facciata con la suite che dà il titolo all’album. Sedici intensi minuti nei quali gli Uriah Heep riescono a far entrare un po’ di tutto, dai virtuosismi di Hensley alle cavalcate “free”, dagli arrangiamenti orchestrali aristocratici all’assolo deragliante e torrido di Mick Box, ed ancora vocals drammatiche, vibrazioni space, inserti di fiati, in una struttura certamente articolata ma non pacchiana ed autocelebrativa come talvolta capita di sentire di questi tempi. Una mini-opera che parte morbida e vellutata per estendersi in un crescendo irresistibile nel quale forza, melodia, epicità, sono legate dal filo della classe. Dove i Deep Purple hanno esplorato il lato energico e muscolare dell’hard ed i Led Zeppelin quello blues e folk, gli Uriah Heep hanno sviluppato la sua componente romantica e raffinata, entrando anche loro nell’esclusivo circolo di formazioni fondamentali per il genere.
Come spesso accade, gli Uriah Heep con “Salisbury” non furono profeti in patria dove vennero spietatamente stroncati dalla critica, ma ottennero notevole credito nel resto d’Europa per consolidarlo in seguito con i lavori già citati.
Poi verso la metà dei ’70 il gruppo svoltò decisamente verso un rock più edulcorato e commerciale che allontanò i fans della prima ora e portò il gruppo ad un lento declino. Non c’è mai stato comunque un vero e proprio scioglimento, la band ha continuato ad esistere con diversi schieramenti ed alterne fortune fino ad oggi, dove in pratica si limita a sfruttare la gloria passata ma con dignità e senza lifting grotteschi.
Non è ancora stato scritto nessun commento per quest'album! Vuoi essere il primo?