In un periodo di inaspettati rientri sulle scene, non sorprende nemmeno più di tanto risentire dopo lungo silenzio il carismatico vocalist che fu stella dei Van Halen e che a cavallo tra i '70 e gli '80 incarnò molto più di altri lo stereotipo della rock-star patinata e glamour.
David Lee Roth si ripresenta con un lavoro solista che ce lo mostra in forma assolutamente dignitosa, sia sotto il profilo fisico che quello musicale. Lui, oltre ad essere un ottimo cantante ed un fenomenale animale da palcoscenico, è sempre stato uno splendido personaggio fuori dalle righe, un simbolo di esuberanza e pittoresca originalità. Mentre i colleghi dell'epoca si corazzavano di cuoio e borchie assumendo atteggiamenti sempre più truci ed ostili, lo ricordiamo sfoggiare clamorosi completi ricoperti di lustrini o gigioneggiare nel coloratissimo look da perfetto "gigolo" circondato da schiere di modelle discinte. Quella delle donne appariscenti è infatti una mania che Roth non ha abbandonato col passare del tempo, basti osservare il booklet del presente album, e fa il paio con l'altra grande fissazione del biondo cantante: le cover.
Fu proprio un disco zeppo di cover ("Diver down") a decretare la fine della sua avventura con i Van Halen, ed è un lavoro quasi integralmente di cover a segnarne il nuovo ingresso nel music-business.
Chi si aspetta un episodio all'insegna del classico hard rock resterà profondamente deluso. Il Roth di oggi è un bravo intrattenitore, un istrione, un esecutore che si ispira più sovente alle orchestre swing-jazz anni '50 che non alle schitarrate di "Run with the devil" o "Atomic punk". Basti notare la versione per piano e fiati della famosa "Ice cream man", presente sul mitico "Van Halen I", per realizzare quanto sia vasto il solco che oggi lo separa da quei tempi gloriosi.
Però nel suo genere non si tratta di un brutto disco, anzi. Ci sono i toni allegri e brillanti dello swing, del soul, del rock, del rhythm'n'blues, scintillanti arrangiamenti, cori irresistibili, eleganza, divertimento e stravaganza, il tutto coronato dalle inimitabili interpretazioni dell'estroso vocalist.
Molti i brani completamente trasformati e quasi irriconoscibili rispetto agli originali, da una "If 6 was 9" di Jimi Hendrix rallentata, rarefatta e sussurrata, alla Beatlesiana "Tomorrow never knows" piena di elettronica e stravolta perfino nel titolo ("That Beatles tune"). Un'operazione di rivisitazione che potrebbe lasciare perplessi, ma gustando l'album con il giusto spirito goliardico che ha sempre animato David Lee Roth si scoprono diversi momenti davvero riusciti e convincenti. Su tutti la coppia di rockblues dei sottostimati Savoy Brown, l'iniziale "I'm tired" (qui "You got the blues, not me..") e la liquida e sensuale "Stay while the night is young", una bella versione di "Shu ba da du ma ma ma" di Steve Miller (qui "Shoo bop") sferzata dalla lead di Brian Young, ed ancora una rischiosa ma vincente lettura funkeggiante di "Soul kitchen" dei Doors.
Il finale vede protagonista il sax dell'ospite Edgar Winter, presente in un paio di bonus tracks quali la già citata "Ice cream man" ed una jazzistica "Bad habits".
Pubblicare un disco basato sulle idee e le canzoni altrui non è cosa che paga sempre, ma nel presente caso Roth oltre alla voce ci ha messo il proprio spirito, la personalità ed il suo modo d'intendere la musica. L'atmosfera di "Diamond Dave" è quindi quella variopinta ed ammiccante che caratterizza il suo autore, ed anche se difficilmente farà colpo sui rockers e meno che mai sui metallari, risulta un ascolto piacevole ed un ritorno positivo per l'inossidabile Dave Lee Roth.
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