Dovessi scegliere un nome contemporaneo che rappresenti la categoria dei “rock’n’roll losers”, senza esitazioni punterei su quello di Gideon Smith.
Il suo aspetto stropicciato da reduce della scena ci parla di troppi anni passati “on the road”, ed è anche l’incarnazione di un’attitudine musicale pura, incontaminata e perennemente fuori da ogni moda commerciale. Un esempio simbolico della moltitudine di personaggi che si sono sbattuti per conservare le tradizioni antiche, gente che suona ininterrottamente da decenni ma la cui esistenza è nota soltanto ad uno sparuto manipolo di amici e sostenitori.
Chi li definisce perdenti è permeato dalla mentalità dominante del business (più vendi, più fai soldi, più vuol dire che sei bravo…), ma altri riescono invece ad immaginarli circondati dall’aura romantica di chi, malgrado tutto, non accetta di farsi da parte per lasciare campo sgombro alle proposte confezionate su misura.
Concetti che probabilmente ad uno come Gideon Smith interessano ben poco, la sua carriera è nata nel segno della passione e non nell’illusione di un grande successo che non arriverà mai. Il suo vero problema è invece trovare al giorno d’oggi un’anima buona che gli permetta di far uscire l’ennesimo disco di nicchia. Il romanticismo dell’industria discografica è pari a quello di una pietra, popolarità zero uguale guadagni zero e fine della storia.
Questo spiega il fatto inconsueto che vede la band statunitense pubblicare il nuovo “Dealin’decks” per una piccola etichetta del nostro paese: la Scarey Records di Torino. Così c’è anche un po’di tricolore nel presente lavoro, per la verità disponibile già da alcuni mesi.
Come previsto Gideon e compagni propongono imperterriti il loro hard rock di vecchia scuola, ricco di fondamenti blues e fortissime influenze southern. Classiche canzoni schiette ed oneste, semplici e lineari, ruvide e melodiche, trascinate da ritmiche pigre ed abbellite da un soffio di amarezza secondo la consuetudine del rock sudista. Il muro delle chitarre forma il fronte d’assalto evocando i Lynyrd Skynyrd, mentre la voce torbida e vissuta di Smith è il valore aggiunto che permette al gruppo di fissare la propria identità, per distinguersi dagli altri semi-sconosciuti eroi di questa scena come Throttlerod, Artimus Piledriver, Five Horse Johnson, ecc.
Molto incisive e fedeli alla buona qualità esibita nel precedente “Southern gentleman” le rocciose e trascinanti “Dreamchaser” e “Blood and fire”, animate da un groove polveroso che odora di sbronze, donne spezzacuori e cavalcate libere e selvagge. Due brani destinati a trovare posto fisso nelle esibizioni dal vivo.
Più di maniera gli altri pezzi, eseguiti nel classico stile della band ma limitati dalla loro brevità, mentre la ballata acustica “Dionysius child” appare invece meno ispirata, perlomeno in rapporto ad altri episodi simili che in passato Smith e soci avevano interpretato con maggiore intensità drammatica.
Ma l’unico reale aspetto negativo del disco è la sua durata. Si tratta infatti di un mini-cd che non supera i venti minuti, cosa che facilmente lo indirizzerà soltanto verso i fans completisti. Resta comunque la speranza che gli amanti del rock sincero, quello ignorato dalla potente industria che sforna tendenze a getto continuo, abbiano voglia di dare un piccolo contributo per salvare dall’estinzione una piccola, splendida, formazione di artigiani rock come Gideon Smith & the Dixie Damned.
Concludo con il doveroso elogio al fiuto ed all’intraprendenza della nostra Scarey Rec. Dopo aver messo a segno il gran colpo dei Bible of the Devil, ci danno anche la soddisfazione di sostenere questi validi veterani americani.
Non è ancora stato scritto nessun commento per quest'album! Vuoi essere il primo?