Whimps and Poser leave the... leave this review!! Qui si troveranno solo lodi al nuovo lavoro dei
Manowar, "Warriors Of The World", che sancisce il ritorno dei four warriors dopo una lunga attesa, visto che il loro precedente album in studio risale addirittura al 1996. La curiosità di ascoltare nuove canzoni dei Manowar era forte, anche perché "Louder than Hell" mi era sembrato un po' troppo di maniera, con alcuni brani in cui i Manowar se l'erano cavata con il mestiere. Questa sensazione non trova nessuna corrispondenza su "Warriors Of The World United", qui DeMaio e brothers sembrano veramente ispirati. Se proprio devo muovere un appunto lo faccio alla disposizione dei pezzi nella scaletta che vede i brani più aggressivi "relegati" al fondo mentre quelli più melodici e quelli più "sperimentali" trovano posto rispettivamente nella parte iniziale ed in quella centrale dell'album. Per partire non c'era scelta migliore della cadenzata ed anthemica "Call to Arms" (anche solo per il titolo!) un mid tempo all'altezza dei brani migliori di "Kings of Metal". Non sarebbe nemmeno il caso di dirlo ma la prestazione di Eric Adams è eccezionale, ed anche Karl Logan si mette in grande evidenza. "Fight For Freedom" si sviluppa invece senza troppi sussulti su un ritmo marziale dopo un inizio piano e voce che a me ha ricordato in modo incredibile alcune cose di Tom Waits. Ma non era a questo che mi riferivo usando il termine "sperimentale". Calma, calma... non c'è niente di che spaventarsi, ed infatti l'inclusione di "Nessun Dorma" si poteva anche prevedere dopo che i Manowar avevano proposto dal vivo la famosa aria della Turandot al Gods of Metal del 1999. Un arpeggio di chitarra ed una stupenda interpretazione di Eric Adams aprono uno dei momenti più riusciti: "Swords In The Wind" che credo meriti di essere definita come la più degna erede di "Heart of Steel" per quel feeling epico e malinconico che sprigiona. Più inaspettata (e non del tutto riuscita) è sicuramente "An American Trilogy", la ripresa di un tributo alle tradizioni americane a suo tempo realizzata da Elvis Presley, cui segue "The March" uno strumentale tutto sommato inutile che prepara il terreno per la titletrack, altra anthem song nel più classico stile del gruppo pronta a cancellare piccoli dubbi che stavano già iniziando ad abbozzarsi. Da qui in avanti è un crescendo, la dimostrazione di cosa sia il Power Metal, che prende il via con "Hand Of Doom" e che ha il suo culmine in "House of Death": ecco che gli anni passati da "Hail to England" ad oggi svaniscono in un batter d'occhio, stritolati dal basso galoppante di Joey DeMaio e dal martellare di Scott Columbus. Rimane ancora tempo per "Fight Until We Die", altro pezzo con un alto coefficiente di velocità e di epicità a cui spetta la conclusione. Un paio di brani di questo livello piazzati strategicamente nella tracklist e saremmo di fronte ad un capolavoro...