Una vera e propria “fissazione” per il bianco, quella dei Mad Max, che da quando si sono riformati hanno dato alle stampe tre dischi (“Night of white rock”, l’Ep acustico “In white” e questo “White sands”, per l’appunto) all’insegna di questo colore, presumibilmente il simbolo della purezza e dell’autenticità della loro fede nei confronti dell’Altissimo, altro importante leit motiv concettuale della loro recente produzione discografica.
Siamo sinceri, c’è molto “mestiere” in questo nuovo Cd e forse è passato troppo poco tempo dal precedente full-length perché la creatività dei suoi autori potesse essere veramente focalizzata e dare il meglio di sé stessa, d’altra parte, però, abbiamo a che fare con degli artisti talmente bravi e preparati nel loro settore di competenza, che non sorprende affatto di ritrovarsi, nonostante tutto, ad apprezzare, canticchiare e lasciarsi coinvolgere da questi dieci brani piuttosto “semplici” e diretti nella loro sostanziosa capacità adescante.
La voce di Michael Voss satura come di consueto la stanza più importante della mia “magione” (quella dove c’è l’impianto stereo, per i meno, ehm, “intuitivi”!) di straordinarie vibrazioni benefiche, mentre le chitarre lo assecondano ad arte, nelle sue varie escursioni interpretative, graffiando o adulando i miei timpani, che dimenticano abbastanza in fretta quel pizzico di “manierismo” di cui si è già detto, e si arrendono docilmente a questi suoni sempre molto gratificanti.
Il class metal californiano e l’hard rock melodico degli eighties continuano ad essere il terreno preferito dei nostri alemanni, con sentori di Dokken e Bon Jovi che abbastanza spesso affiorano sul palato dell’ascoltatore che si sottoponga alle cadenze traenti di “Family of rock”, al tiro irresistibile di “Little princess” (in cui fa capolino pure l’Alice Cooper in versione anni ’80) o al riff graffiante e al refrain catalizzante di “We fight in white”.
Un misto di natura “teutonica” e passioni “yankee” filtra attraverso le traiettorie della canonica ma non per questo sgradevole “Someone like you”, un tocco orientaleggiante alimenta il piacevole (sebbene non fondamentale) strumentale “Lluvia”, l’irrinunciabile vocazione “adulta” viene soddisfatta con gusto e perizia nella sofisticata “Heaven is ...” e nell’intensità luminosa di “Glorious night”, mentre nella formidabile melodia notturna di “Change it”, questa stessa matrice sonora si fa ancora più personale ed entusiasmante, realizzando il mio numero prediletto dell’intero album.
“Too wrong” è un’altra hard rock song di pregio, appena sminuita nel suo valore da un tema che ammicca un po’ troppo da vicino alla “Love gun” dei Kiss e con “War”, si chiude, con una fisicità non completamente convincente, questo dischetto che invece complessivamente mi persuade della sua validità e che credo potrà soddisfare parecchi dei melodic rockers all’ascolto.
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