Melodie cangianti, la tempra e la profondità espressiva dell’HM yankee anni ’80, schegge di fantasia prog metal, una spruzzatina di “modernità” e un tenue velo “sinfonico”, che sporadicamente avvolge composizioni seducenti e mai scontate, questa la ricetta tutto meno che elementare scelta dagli elvetici Daydreamer per il loro debutto autointitolato.
“Daydreamer” è, dunque, un dischetto abbastanza straniante e moderatamente coraggioso, forse non eccezionalmente “istantaneo”, ma nemmeno particolarmente ostico, che conquista con la forza di un’ingente versatilità nella scrittura e di una sostanziosa competenza esecutiva, nella quale primeggia, senza alcun dubbio, la voce duttile e rigogliosa di Jean-Marc Viller (Neverland) e in cui significativa importanza rivestono pure il basso di Alain Schwaller, “colpevole” di pulsazioni davvero intense, la batteria estrosa e precisa di Boris De Roche, le tastiere di Biagio Aeberhard, una sensibile presenza costantemente meritoria e non ridondante, nonché la chitarra dinamica e adeguatamente “malleabile” di Peter Berger.
Un collettivo di grande spessore per un Cd che, come anticipato, non comunica tutte le sue qualità in maniera repentina e per il quale sono consigliabili almeno un paio d’ascolti “concentrati”, in modo da consentire alla dirompente teatralità di “I am f …”, all’aggressione “futuristica” di “Guardian angel” (una sorta di Rammstein convertiti al metallo melodico) o ancora all’accessibilità di “Secret desire” (la dimostrazione che la scuola dell’hard-rock “radiofonico” europeo ha lasciato parecchie tracce di sé anche in questa volubile formazione), di iniziare a soggiogare a dovere i Vostri sensi.
L’operazione prosegue con la suggestiva “Dreamtale”, un racconto solenne, evocativo ed intimamente ispirato, con “Paralyzed”, numero possente ed impetuoso, con “Philosophy” e “You better run”, splendidi esempi di rock duro appena screziato di prog, con “Glass prison”, un altro raid turbinoso non privo di cromatismi melodici e con “Slaves of our fantasy”, un excursus multiforme d’infinita bellezza, che suscita emozioni irrefrenabili per tutta la sua durata.
Nell’economia di un album globalmente assai stimolante appena meno efficaci risultano “I won’t follow you”, dotata di una grandeur symphonic-epic non troppo focalizzata e “Hand in hand”, una trama romantica lievemente stucchevole.
Non ancora un capolavoro da consegnare ai posteri, ma sicuramente (e finalmente direi!) il lavoro di una band “nuova” che dimostra di possedere una certa identità propria, che presumibilmente potrà offrire qualcosa all’evoluzione del genere perché si sa esprimere nella libertà di coniugare sensazioni “tradizionali” con piccoli elementi di rinnovamento e non trascura l’affabilità delle melodie come aspetto importante del suo modo di produrre musica.
Dopo la vittoria di Alinghi nell’America’s Cup, il secondo “colpaccio” svizzero dell’estate 2007.
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