Marco Mendoza e Richie Kotzen, innanzi tutto, e poi ancora ospiti del calibro di Steve Lukather, Ted Nugent, Doug Aldrich, Tommy Aldridge e Brian Tichy.
Per commentare in modo esauriente il curriculum di questi musicisti sarebbe necessario “sottrarre” un bel po’ di spazio alla recensione di questo disco e credo altresì che si tratterebbe di un’operazione superflua, dacché confido nella preparazione dei nostri lettori in merito a queste notissime personalità dell’hard rock di qualità.
Il primo impegno solista di Marco Mendoza (vabbè lo dico … già collaboratore di Thin Lizzy, Blue Murder, Ted Nugent, Whitesnake e Soul SirkUs, tra gli altri!) appare dunque un prodotto pieno di talento e di talenti, che per la sua esibizione si abbevera alla fonte del blues, del rock, del soul, del funky e del R&B, rivelando un approccio maturo, prevalentemente piuttosto levigato (talvolta vagamente pop-esque) nonché pregno di un feeling genuino, naturale e privo di mistificazioni.
La prima sorpresa riguarda la voce di Mendoza, palpitante e calorosa, alimentata da un “soffio” che la può avvicinare, senza peraltro raggiungere la sua inestimabile eccellenza (sarebbe, forse, pretendere un po’ troppo!), a quella di un certo Glenn Hughes, la cui opera risulta alla fine il più sostanzioso riferimento ispirativo dell’intero Cd, e non solo nello specifico campo nella fonazione modulata.
Passando alle canzoni, come dicevo, si tratta di una collezione di momenti parecchio emozionanti, tra riverberi di maggiore “fisicità” hard, come accade nelle avvincenti “Look out for the boys”, “Your touch”, “In my face”, “Broken” e “You got me”, e un’ispirata morbidezza e pastosità blues n’ soul, la quale prende il sopravvento in “Not for me”, “Lettin’ go”, “I want you” e nel “lentone” “Still in me”, gratificate da un pathos comunicativo e toccante.
La title-track e “Let the sun shine” ritraggono il versante più “radiofonico” del disco, con melodie ariose e refrain d’immediata lettura, mentre “Dance with me” conclude questo bel viaggio con una gradevole semplicità acustica.
Con quest’album, Marco e Richie svelano tutte le loro “affinità elettive” artistiche ed esplorano con dovizia e notevole cultura le “radici” della musica americana, tonificandole con salutari iniezioni di rock … sicuramente nulla d’inedito o “destabilizzante”, ma a me queste cose quando sono così “sentite” e benfatte piacciono sempre. E a Voi?
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