Casino Steel arriva dalla fredda Norvegia, ma ad ascoltare la sua musica sembrerebbe più un figlio dell’Arizona, del Tennessee o di qualche altro stato del canicolare sud degli U.S.A.
Dopo un passato in band quali The Boys ed Hollywood Brats, in cui aveva sperimentato il bollore del rock e del punk, il nostro scandinavo decide di assecondare nuovamente la sua voglia di “calore”, andando questa volta addirittura a riscoprire il linguaggio schietto e arcaico della country music, svolgendo un’operazione di “recupero” rigorosa e rispettosa, ben lontana da una qualunque velleità “alternativa”, che pure ha saputo garantire discrete soddisfazioni a chi l’ha incoraggiata.
Assieme ad una serie di composizioni inedite, sempre alimentate dal medesimo spirito rootsy, Mr. Steel e i suoi soci decidono di rendere omaggio ad alcuni dei classici della tradizione “rurale” americana, “scomodando” addirittura uno dei padri fondatori del movimento, Hank Williams, il quale diventa principale “oggetto” di tale atto di deferenza, con la sua “There’s a tear in my beer” che si concede pure come eloquente denominazione dell’intero lavoro.
L’immaginario evocato è spesso quello delle assolate distese statunitensi, con le figure dei “vecchi” cowboys che sembrano prendere vita su quei fondali, magari ritratte mentre si allontanano cavalcando solitarie verso i furibondi tramonti del “lontano ovest” (se volete una rappresentazione meno “poetica”, potete pensare alle atmosfere dei tipici locali in stile western), e sebbene la genuinità profusa nell’iniziativa si rilevi assolutamente tangibile, devo anche dire che personalmente ho trovato il tutto, soprattutto nelle riletture (tra le quali c’è anche quella della celeberrima “What a wonderful world”, resa in una versione “bucolica” e levigata, adeguata al clima generale), leggermente soporifero ed eccessivamente pacato.
Questione di gusto soggettivo, ovviamente, quello stesso che mi fa apprezzare maggiormente episodi notturni e “tormentati” come “I was barely getting by” e “Real rain”, con i loro immaginifici risvolti vagamente Tarantiniani, oppure gradevoli momenti all’insegna di un elevato coefficiente d’intensità espressiva come “Ballad of the Sad Café” e “Heroine”.
Un disco non adatto a tutti i palati, dunque, che potrà, però, in maniera piuttosto efficace, virtualmente trasportarvi lontani dalle nostre metropoli, in un “mondo” puro e inflessibile come le Montagne Rocciose, in cui la polvere non è mai “sottile”, non si deposita in modo subdolo sui polmoni e può essere facilmente eliminata dagli abiti con una vigorosa “scrollata”.
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