Quando nel lontano 1998 ho acquistato e ascoltato "
Falling into infinity", ero ignaro di tutte le polemiche, le critiche e le vicissitudini che avevano preceduto e accompagnato l’album: le restrizioni dell’etichetta discografica, delusa dalle esigue vendite di
"Awake", avevano imposto ai
Dream Theater l’obbligo di comporre canzoni più facilmente ascoltabili dal pubblico, più commerciali e immediate. Fu prodotto in poco tempo, le registrazioni iniziarono nel marzo del 1997 e si conclusero a settembre dello stesso anno, anche se molto del materiale era già stato composto agli inizi del 1996. Lo scoramento e la frustrazione del gruppo, costretto ad aspettare un anno intero per avere il permesso di registrare le canzoni, portò a dei conflitti interni tra
Portnoy, contrario alle imposizioni della
Elektra Records, e
Petrucci, più accondiscendente. Lo stress fu grande, ai limiti dello scioglimento, tanto che i
Dream Theater chiesero di essere liberi dalle interferenze discografiche per tutti gli album successivi. Il produttore
Kevin Sherley scartò alcuni brani dall’album e ne smembrò altri (per esempio, la sezione centrale di "
Burning my soul" si trasformò nella strumentale
"Hell’s kitchen").
In questo clima poco piacevole si era inserito in pianta stabile (tre anni prima) il nuovo tastierista
Derek Sherinian, già all’opera in "
Change of Seasons" (anche se ebbe un ruolo marginale nell’album, dato che le parti di tastiera erano state composte da
Kevin Moore). Sulle qualità artistiche di
Sherinian c’erano pochi dubbi, ma sull’effettivo amalgama con la band ce n’erano molti:
Derek era molto diverso da
Moore, soprattutto nella scelta di suoni meno neoclassici, ma maggiormente tecnologici, futuristici ed elettronici (in pratica utilizzava la tastiera più come synth che come piano, come fa attualmente e odiosamente
Rudess in molte parti dei più recenti album).
Veniamo ora all’analisi e al giudizio dell’album: è considerato da molti il peggiore della band, proprio a causa delle restrizioni e condizioni sopracitate: un album troppo commerciale, lontano dallo stile prog/metal dei
DT (perfino la scritta del gruppo in copertina ha una grafica diversa, opera di
Storm Thorgesom), con troppe ballad e canzoni lineari (struttura classica strofa-ritornello, strofa-ritornello-assolo). Prima di analizzare brevemente le canzoni, mi permetto di esprimere immediatamente il mio disaccordo con il giudizio dei più: a me
"Falling into infinity" è sempre piaciuto parecchio, altro che peggior album! Migliore dei vari
"Octavarium",
"Train of Throught" e successivi. Solo i precedenti a questo, e il capolavoro
"Scenes from a memory" gli sono superiori. Il mio giudizio può non essere assolutamente condivisibile, ma mi avvalgo delle sensazioni che mi ha provocato all’epoca l’ascolto dell’album. Già con
"New Millennium" si assiste a un cambiamento di sound, con la voce “elettrica” di
Labrie, condizionata, questo sì, da eccessivi filtri, e i suoni più futuristici. Sezioni orientaleggianti e tooliane si alternano in una canzone sicuramente non eccelsa, la cui parte migliore è nell’interlude, dove sembra davvero di ascoltare la band di
James Keenan, con un
Myung sugli scudi.
"You not me" è forse una delle peggiori dei
DT in assoluto, senza mordente, con un riff semplice ripetuto all’infinito e zero virtuosismi.
"Peruvian Skies" è la prima ballad, o semi-ballad dell’album, con la voce di
LaBrie finalmente più libera da filtri, calda ed emozionante. L’intermezzo è composto da uno splendido assolo di
Petrucci, seguito da una parte metal che ricorda (vagamente) i Metallica.
"Hollow years" è l’esempio perfetto delle semplificazioni operate dai
DT (strofa-ritornello-assolo-strofa-ritornello), ma è anche la migliore ballad dell’album, con un intro di chitarra acustica e degli arpeggi meravigliosi ed emozionanti.
"Burning my soul" è un’altra song giudicata pessima dai più e sicuramente lo smembramento operato dal produttore non le ha giovato. Io però non la ritengo così malvagia, anzi! Mi ha sempre dato sensazioni positive all’ascolto, forse perché è la prima e unica canzone “metal” dell’album. Il riff è pesante e accattivante, anche se il chorus e i suoni di tastiera di
Sherinian lasciano a desiderare. Il testo della canzone, in particolare il ritornello
“the pressure keeps on burning my soul” è un riferimento non troppo velato e critico verso le pressioni imposte dalla casa discografica. E di tali allusioni ce ne sono altre, in
"New Millennium" e
"Just let me breath".
L’intermezzo strumentale che inizialmente doveva essere presente nella parte centrale, è finito come si diceva nella successiva
"Hell’s kitchen". Questa sì, è senza dubbio un piccolo capolavoro: l’arpeggio iniziale è seguito da uno degli assoli più toccanti e tecnicamente straordinari di
Petrucci, con un finale in crescendo che la rende una delle migliori strumentali del quintetto.
"Lines in the sand" è la prima vera canzone prog dell’album, nonché un pezzo da novanta: dopo un intro di tastiera psichedelico, si entra nel vivo con un riff prepotente e accattivante, con un
Portnoy straordinario e uno
Sherinian che si fa finalmente apprezzare, riducendo i suoni elettronici e riutilizzando quelli neoclassici.
LaBrie nel ritornello è coadiuvato dalla voce di
Doug Pinnick dei King’s X. Nell’intermezzo strumentale
Petrucci dà il meglio di sé, con un assolo meraviglioso di stampo gilmouriano.
"Take away my pain" è un’altra song trascurabile, orecchiabile, senza infamia e senza lode per così dire. Stesso discorso per la successiva
"Just let me breath", dall’inizio promettente e incalzante, ma che poi sfocia in un riff ripetitivo e piatto, con un assolo di tastiera/synth di
Sherinian da brividi (nel senso che fa rabbrividire da quanto è brutto).
"Anna Lee" è l’ultima ballad dell’album, semplice e malinconica, forse anche troppo smielosa, ma che dimostra le capacità vocali di
LaBrie libere da filtri, come in poche altre canzoni.
"Trial of tears" finalmente! Eccola qua la canzone, o meglio la suite divisa in tre parti, che (mi) fa alzare notevolmente il giudizio sull’album, una di quelle che ascolto e riascolto ancora oggi (oltre ai 3 capolavori dei
DT, "I&W", "Awake" e
"SFAM"): la splendida intro è ispirata a "Xanadu" dei Rush, con rievocazioni pinkfloydiane. Riff e ritornello sono piacevoli e orecchiabili, ma come spesso accade, la parte migliore sta nel mezzo, ovvero la seconda parte della suite, intitolata
"Deep in heaven", tutta strumentale, dove il basso di
Myung fa da preludio ad un lungo, fantastico assolo di
Petrucci, qui ispirato più che mai. Il ritmo si fa incalzante, con
Portnoy e
Myung a dettare i tempi e perfino i suoni futuristici di
Sherinian si amalgamano perfettamente con l’incedere della canzone, fino a giungere alla terza parte,
"The wasteland", in cui la song assume i connotati di una splendida ballad, per poi riprendere il ritornello iniziale. Se questa non è una delle migliori dei
DT, ditemi voi….
Riassumendo, gli spunti migliori dell’album si ritrovano nelle due canzoni più lunghe e prettamente prog e nelle ballad. Pensate a cosa sarebbe potuto essere
"Falling into infinity" senza le restrizioni dell’etichetta discografica. Un capolavoro mancato, a mio parere.
A cura di Marco “marcoozzy84” Bevilacqua