Alcuni di noi sono un po' affascinati dal male e dal dolore, si crogiolano in sensazioni che ogni altra persona con del proverbiale sale in zucca rifiuterebbe a priori, fuggendo in quel territorio di luce
(la maggior parte delle volte finta ed effimera) e sicurezza che viene definito normalità. Ma cosa vuol dire essere normali? Essere sociali e compagnoni, per poi sparlare alle spalle di tutti e tirare coltellate così precise che neanche nei circhi di fine Ottocento se ne potevano ammirare di tali? Io onestamente non lo so e, con altrettanta onestà, vi dico che non me ne frega niente: sono uno di quelli che alla falsità di certe luci preferisce l'intrattenimento degli angoli grigi, quelle zone d'ombra poco frequentate dai “normali” e per questo così tremendamente accattivanti ed accoglienti.
“Reign In Blood” degli
Slayer è una delle mie aree buie preferite, uno di quei luoghi così apparentemente scomodi e malefici che in pochi vi si avventurano, e coloro che lo fanno ne parlano poco, in quanto preferisco gustarsi gli attimi, i soli schizzati e privi di qualunque costruzione melodica, la voce rabbiosa e sgraziata, ed infine quella batteria così maledettamente violenta eppure precisa e metodica, come un chirurgo che taglia, apre e ricuce a proprio piacimento, una specie di demiurgo psicopatico ed onnipotente talmente corrotto ed infettato dal potere, da non riuscire a far altro che pestare, colpire ed accanirsi, annichilendo e, allo stesso tempo, incantando chi subisce la sua ira, come se si fosse davanti uno
tsunami enorme e devastante, ma allo stesso tempo così bello nella sua imponenza da non poter smettere di guardarlo, attratti dalla sua mortale portata distruttiva.
Nel
1986, anno di grazia per il Metallo Pesante, gli Slayer decisero di portare oltre il concetto di rabbia in musica, creando un qualcosa capace di racchiudere la ferocia primigenia e l'immediatezza di un certo
Hardcore Punk con la cattiveria ragionata e, per certi versi, più ferale del nascente (all'epoca ovviamente)
Thrash Metal. Il risultato fu quello che tutti, e ribadisco tutti, i metallari di ogni età hanno ascoltato almeno una volta, cioè una
scheggia impazzita di neanche mezz'ora in cui ogni singola nota sembra fatta apposta per distruggere e spazzare via qualunque cosa gli si pari davanti. Non c'è nessun altro scopo se non quello di stordire ed annichilire, oltrepassando, allo stesso tempo, quel confine di cui vi parlavo all'inizio: luce ed ombra, giorno e notte, “normalità” ed “anormalità”, piacere nel bello e ricerca della soddisfazione nel dolore e nell'oscurità, una specie di
“Hellraiser” senza Pinhead e scatola, dove i ganci e gli uncini vengono sostituiti dagli sguardi preoccupati e schifati di coloro che, guardando solo la copertina (giustamente un libro si giudica solo da quello, altrimenti perché continuerebbero a ristampare la
“Divina Commedia”?), pensano di aver capito tutto, sia della band che di chi l'ascolta. Ma poco importa a chi, come me, sguazza nel buio come un gatto affamato che gioca con il topo, infatti in certi passaggi, tipo il break centrale di
“Angel Of Death” (visto, l'ho citata, contenti?) in cui
Dave Lombardo gioca con la batteria e ci fa gridare: “Cavolo, così si suona!”, io sono a casa mia, e poco importa se poco più avanti pioverà sangue, tanto porto sempre con me l'ombrello!
Certi lavori sono così, non sono semplici album da poter descrivere e basta, dietro c'è troppo: generazioni di adolescenti brufolosi ed incazzati con il mondo che hanno urlato il testo di “
Raining Blood” o
"Altar Of Sacrifice" solo per il gusto di far prendere un colpo ai propri genitori e per sentirsi diversi dai fighetti tutti carini e “normali” fuori, e marci come letame dentro; folle di musicisti che, sentendo il lavoro di
Jeff Hanneman/Tom Araya/Kerry King/ Dave Lombardo, hanno di deciso di formare loro stessi una band e di andare oltre, scoprendo confini fino ad allora sconosciuti ed impensati; ragazzi che ai concerti hanno giocato, giusto per un paio d'ore, all'essere cattivi e fuori di testa, per poi tornare al mondo solito, quello dei coltelli volanti e delle spalle che è meglio tenere ben appoggiate al muro, non si sa mai! In poche parole in dischi come
“Reign In Blood” ci sono delle persone, forse un po' strane e non belle da vedere (parlo del sottoscritto, non inalberatevi!), magari anche chiuse e poco ciarliere, ma comunque persone, esseri umani che vedono il mondo in modo diverso, che si esaltano ad un pazzo che canta e suona il basso come se stesse cercando di spaccare un muro a testate, oppure che si divertono ad ascoltare due ragazzi che usano le chitarre al solo scopo di creare un muro sonoro fatto di riff iperveloci ed assoli schizoidi privi di logica, il tutto con l'unico obiettivo di rilassarsi e poter dire:
“Beh, in confronto a questi, pure io, alla fin fine, sono normale!”.Ora vi lascio, di fuori ha cominciato di nuovo a piovere e le creature della notte stanno uscendo dai loro antri bui, perciò vado anch'io, fosse mai che una di loro sappia dirmi come fare una
bella zuppa di cipolle.