Un anno. Tanto basta al progetto Megadeth per delineare la propria rotta e divenire a pieno titolo una delle realtà più valide del thrash metal non soltanto californiano.
La seconda raccolta d’inediti del gruppo ci propone, infatti, un quartetto in forma talmente mirabile d’avere dell’incredibile, soprattutto se nelle orecchie ancora ronza il suono promettente, ma in gran parte abbozzato, che contraddistingue il pur pregevole predecessore
Killing Is My Business.
Si parte all’insegna della cavalcata con
“Wake up dead” brano dove il riffing serrato di Mustaine si fonde magistralmente col solismo sciolto e scattante di Poland, entrambi perfettamente supportati da Samuelson, quasi irriconoscibile rispetto al recentissimo passato.
Il ritmo da cardiopalma che chiude il pezzo s’interrompe solo per il breve volgere del riff d’ingresso di
“The conjuring”, che dall’inserimento del rullante si assesta su un costante crescendo di tiro, mentre le orecchie si fanno in quattro per stare dietro ai continui inseguimenti tra le chitarre su cui troneggia la timbrica acida di Mustaine.
Dopo due pezzi di questo livello verrebbe da chiedersi se è possibile fare di meglio; la risposta è fornita da
“Peace sells” perfettamente introdotta dalla coppia Ellefson/Samuelson, progressivamente affiancati dalle chitarre, con Mustaine intento a creare a una lirica provocatoria e caricaturale che culmina nell’ansiogeno ritornello, volto a conoscere la fine che attende una pace messa in svendita (chissà se il reverendo si fa ancora di queste domande).
La successiva
“Devil’s island” è aperta da un’elaborata soluzione di chitarra coadiuvata dall’immancabile precisione della batteria; il tutto è bruscamente interrotto dall’inserimento del basso, che conquistato il sipario, torna nei ranghi all’intonare dell’ugola di Mustaine, contemporaneamente intento a tessere quello che si rivela il riff portante del pezzo. I soli si presentano a ¾ del brano, da qui in poi saranno le chitarre a farla da padrone, per altro sempre con un gusto e una capacità d’inserimento nel contesto della composizione che lascia nuovamente sbalorditi.
Giunto a metà disco, Mustaine pensa bene di dare una sterzata al ritmo dell’album, che sull’introduzione di
“Good mourning/Black friday” raggiunge livelli di ricercatezza melodica tutt’oggi notevoli. A due minuti e mezzo scarsi dalla partenza del brano, però, le sei corde tornano repentinamente furenti, trascinando con sé l’intera sezione ritmica del gruppo, sulle cui note la voce di Mustaine ritrova i massimi livelli di cattiveria, in un crescendo che si completa alla perfezione nel corso del ritornello (intonato assieme a Ellefson) che va a chiudere il pezzo.
Anche
“Bad omen” si apre all’insegna del ritmo “rilassato” salvo poi lasciare campo libero allo sfoggio strumentale del gruppo, che si dipana in continui cambi di ritmo dove l’orecchio si lascia dolcemente rapire una volta dalle chitarre, un’altra dalla batteria.
Ad un passo dalla chiusura, ci attende un appuntamento immancabile per (quasi) ogni masterpiece degli anni ’80 che si rispetti: il momento della cover. In quest’occasione, tocca a
“I ain't superstitious” del bluesman
Willie Dixon l’onore di passare per gli strumenti dei Megadeth, che propongono un restyling molto piacevole del pezzo che stempera l’atmosfera quel tanto che basta ad aumentare esponenzialmente il valore del brano di chiusura, per me il migliore all’interno di una scaletta comunque priva di punti deboli.
In
“My last word” il gruppo canta di uno sconosciuto intento ad azzardare la propria vita con la roulette russa, tema magistralmente rappresentato a livello sonoro dalla fusione tra la ritmica ansiosamente sostenuta degli strumenti (ancora una volta riff e assoli di qualità ampiamente sopra la media) e il tormento espresso dalla voce di Mustaine, che sul ritornello finale fa venire la pelle d’oca e consegna ai posteri una delle gemme più immacolate del thrash metal mondiale.