Se un gruppo sceglie di chiamarsi Stoner Kings dev’essere cosciente di andare incontro ad una pesante responsabilità. Come minimo gli appassionati del genere si aspetteranno qualcosa che faccia impallidire le produzioni di Kyuss, Nebula, Fu Manchu, ecc. o un lavoro che ridefinisca i canoni del desert-rock diventandone una pietra miliare. Se poi aggiungiamo che il quintetto finlandese si autodefinisce:”La miglior hippie-rock band che abbia mai camminato sulla terra…” non resterebbe che inginocchiarsi ringraziando questi Dei della Sabbia per la loro discesa tra noi comuni mortali. Ma c’è un’altra interpretazione. Ed è quella che vede gli Stoner Kings come scanzonati ed un po’ folli ragazzotti in cerca di spazio vitale tra generi musicali sovraffollati e dove anche qualche atteggiamento guascone può servire alla causa. Infatti nel debutto “Brimstone blues” di stoner ortodosso se ne trovano tracce davvero microscopiche. Nessuna cavalcata onirica, nessuna jam ai confini dello spazio, bensì una sventagliata di micidiali brani al calor bianco che pescano a piene mani soprattutto nel metal e nell’heavy rock’n’roll. Un muro di ritmi fragorosi e frenetici con un tocco selvaggio di Hellacopters e qualche spruzzata di fuzz-guitar, il gruppo non perde tempo dietro a complicate e magari un po’ barbose architetture sonore. Diretti come un treno in corsa i loro riffs tritaossa aggrediscono fin dall’opener “Ebb and the flow” e replicano con clamore ancor più veloci ed anfetaminici in “Damn Delilah”, una vera mazzata metal’n’roll. Una band accostabile a questa è sicuramente quella dei conterranei Mannhai, entrambe esibiscono una struttura fondamentalmente metallica sulla quale inseriscono accenni di soluzioni “stoneggianti” che qui possiamo notare nei lunghi assoli di “Cobblestone road” e nella eccitante ossessività muscolare di “Limbonic void”, una delle migliori tracce dell’album insieme al terremoto distruttivo di “Cosmic dancer”. Il canto di Starbuck, più vicino al glam ottantiano che ai neo-hippies di oggi, si sposa sorprendentemente bene con la violenta ritmica di “Tragedy man” e con il deflagrante finale schizofrenico “Postmortem blues”, roba da lasciare senza fiato, ma lega anche con l’unica esecuzione davvero riconducibile a qualche esempio stoner, diciamo Orange Goblin, ossia “Stonehenge” dal passo più cadenzato e ripetitivo in cerca di sensazioni avvolgenti, song interessante ma forse messa lì più per giustificare il nome del gruppo che per una reale convinzione stilistica. Completano il lavoro un paio di episodi in tono minore, comunque lasciando da parte moniker e dichiarazioni altisonanti questo è un debutto furbo e riuscito. Furbo perché il frullato sonoro dei finlandesi può fare breccia in un pubblico veramente eterogeneo con i suoi disparati passaggi gradevoli ad ogni tipo di palato. Riuscito perché è zeppo di grinta, potenza, entusiasmo, le canzoni sono trascinanti e più di tutto non è la solita zuppa sentita mille volte. Fosse anche solo per la volontà di cercare una dimensione personale ed originale questo disco è da lodare.
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