Con un piccolo sforzo potrei anche ricordarmi il periodo preciso, ma non è importante. Era da qualche parte a metà anni ’80 (tutto è maturato in quel periodo, per poi esplodere molto velocemente). Luogo e modalità li ho invece ben presenti: io e un amico di mio fratello (dunque un tizio un paio d’anni più grande di me) a contrattare in un viottolo della mia città, come fossimo spacciatore e tossicodipendente. Oggetto della compravendita, una misteriosa musicassetta. Io:
“E’ il quarto? Sei sicuro?” e lui
“sine, Ennio, l’ho già detto mille volte, è il quarto! Ci si pesànte…”.
Già in adolescenza tutto pareva già perfettamente delineato: sarei stato simpatico a pochi. Accidenti alle mie fisse.
Eppure la mia necessità di essere rassicurato non era stata vana e i miei dubbi fondati. La TDK da 46, oggetto della lunga contrattazione, in realtà non conteneva il mitico
“Zoso”…e hai voglia io ad aspettare questa
“Stairway to Heaven” di cui tutti mi avevano parlato e di cui avevo sentito un delizioso accenno fatto sull’acustica da mio cugino. Questo LA minore con basso decrescente non arrivava mai. Del tutto ignaro ed inesperto, ciò che avevo fra le mani era in realtà una copia registrata di
“Houses of the Holy”. Che ingenuità. Giuro che ho vissuto per qualche tempo convinto di avere “IV” trasferito male su cassetta e tagliato sul più bello; ma che ne sapevo io allora di titoli, discografia e storia dei
Led Zeppelin? Musicalmente (così come in altro) non sapevo nemmeno allacciarmi le scarpe. La mia ricerca, seppur già maniacale, era appena iniziata.
Anni dopo, nel 1989, quando l’equivoco era stato ampiamente risolto, questo disco, insieme con altri della saga zeppeliniana, è entrato in casa mia sotto forma di regalo per il diciottesimo compleanno, giusto in tempo per sostituire le mie cassette ormai consumate allo stremo da innumerevoli ascolti. All’epoca i vinili si desideravano, si osservavano e si studiavano negli scaffali e nelle vetrine dei negozi: ci si andava ciclicamente, quasi in pellegrinaggio, valutando e pianificando gli acquisti, altro che Youtube e torrents, la musica la dovevi inseguire caparbiamente. Più volte, quindi, avevo già goduto della enigmatica e conturbante copertina di
“Houses of the Holy”, ma ora finalmente potevo aprire a libro questo magnifico oggetto in totale libertà, senza occhiate di rimprovero del commesso di turno.
Che spettacolo di colori e di suggestioni queste immaginifiche cover, sia quella esterna che quella interna, che ne è la prosecuzione narrativa: biondissimi bambini, nudi sulla scogliera di Giant’s Causeway, si dirigono verso la sommità delle rocce vulcaniche del luogo, illuminate dal bagliore sovrannaturale di una forte luce diffusa. Lì, un misterioso Atlante, a braccia tese, li solleva e li offre come in voto a questo raggio vitale, che sovrasta i sassi lavici. La scelta dello studio Hipgnosis è quella di rappresentare la fine della fanciullezza e il passaggio ad uno stadio evolutivo superiore, ispirandosi al racconto del romanzo fantascientifico “Le guide del tramonto” (“Childhood's End”, appunto, in originale) di Arthur Charles Clarke. Fra evocazione di scenari futuri e colori accesissimi e brillanti, su questa copertina spicca ancora l’assenza del nome del gruppo e del titolo dell’album. Si sa, i
Led Zeppelin lasciano parlare la musica, amano forzare e sfidare il mercato discografico e intendono il rapporto con i fan come un vero e proprio circolo segreto, nel quale gli adepti non hanno bisogno di proclami a caratteri cubitali, ma solo di arte ed emozione pura.
La vivacità cromatica della copertina è uno specchio fedele della musica contenuta in questi quarantuno, straordinari minuti che compongono
“Houses of the Holy”, anno 1973, uscito per
Atlantic Records e prodotto come sempre da
Jimmy Page in persona.
Il disco si apre con
“The Song Remains the Same”, inizialmente pensata come traccia strumentale, presentata poi in sede live con altro nome e finalmente immortalata su nastro magnetico nella forma che conosciamo. Questo brano, come “Stairway to Heaven” prima e “Achille’s Last Stand” successivamente, è l’espressione del costante tentativo di Page di realizzare una suite per gruppo rock, nella quale, su una base di voce, basso e batteria, si stratificano le varie sovraincisioni di chitarra. La struttura dev’essere necessariamente lunga e più complessa; la chitarra (devo ripetermi, scusate, ne ho scritto altre volte) viene moltiplicata in partiture e suoni differenti, come se fosse, di volta in volta, un diverso strumento dell’orchestra, che si aggiunge gradualmente agli altri.
“The Song Remains the Same” è una composizione trascinante, perfettamente riuscita nell’intenzione di
Page e perfettamente riuscita in assoluto, anche senza analizzarne eccessivamente l’insieme ordinato, diciamolo a mio discapito. E’ un brano che parte velocissimo, carico di un entusiasmo e di una solarità contagianti; a pause mirate fa seguire accelerazioni incontenibili dei Nostri Quattro.
Plant ricama su questo capolavoro musicale un testo di fratellanza e convergenza armonica, puro e sincero nella sua semplicità, mentre ciascuno degli altri componenti fa letteralmente il diavolo a quattro sul proprio strumento.
A tanta energia fa da contraltare la malinconica
“Rain Song”, esercizio di stile, leggerezza ed eleganza.
Page si esibisce in una doppia parte di chitarra, con le tracce sovrapposte di un’acustica e di un’elettrica, entrambe con accordatura aperta;
Bonham alterna passaggi lievi a sferzate più potenti, perfetto in entrambe le situazioni;
Plant miagola placido, come se dovesse riprendere fiato dopo il tour de force del pezzo d’apertura.
Jon Paul Jones dissemina poesia per tutto il brano, con le note del suo mellotron: anche lui non scherza quando decide con i suoi strumenti di aprire (e di elevare) la musica dei
Led Zeppelin ad un’organizzazione più complessa, sostituendo da solo, in questo caso, un’intera sezione di archi. Mai troppo lodato questo fantastico polistrumentista, cervello analitico del quartetto e grandissimo uomo di sala d’incisione.
Con
“Over the Hills and Far Away” torna a far capolino l’hard rock tipico del quartetto, in uno standard da applausi del duo
Page/Plant, con folk e rock che vanno perfettamente a braccetto. Il lato A, infine, si chiude con l’ironica
“The Crunge”, funky con l’ottima sezione ritmica in primo piano.
Il disco prosegue leggero, con
“Dancing Days” e
“D'yer Mak'er”. Il primo è un pezzo di godibilissimo hard rock, il secondo è invece fortemente contaminato di reggae (il titolo, letto nell’inglese parlato, suona più o meno come “Giamaica”, che è tutta una dichiarazione d’intenti). Ma guai a considerare questa leggerezza come un tratto di banalità stilistica e compositiva: i suoni delle chitarre sono sempre perfetti e le parti eseguite tutt’altro che scontate o prevedibili. E tutte gli interventi di tastiera di
“Dancing Days” meriterebbero un approfondimento a se stante, per quanto sono ben studiati e caratterizzanti l’intero brano.
Saper essere fruibili, nella ricercatezza e nella complessità, è il linguaggio che appartiene solo ai grandi.
Si scivola di traccia in traccia e si arriva a
“No Quarter”. Dopo tanta solarità, i
Led Zeppelin ci trasportano in un’atmosfera glaciale, in cui “i venti di Thor soffiano freddi” e “i cani del destino ululano più forte”. Scenari da battaglie di dei norreni (tolkieniani, invece seconda altra lettura del testo), ma comunque molto suggestivi, capaci di catapultarci improvvisamente fra le nevi e un imprecisato imminente pericolo, alla mercé di misteriosi personaggi “senza pietà”. A trasportarci in questo posto buio e freddo è ancora
Jon Paul Jones: il suo piano elettrico carico di phaser dell’introduzione è ipnotico e, per tutto lo sviluppo dello splendido brano, il suo pianoforte ci ammalia e ci accompagna in questo viaggio fra ere leggendarie. Il duetto di assolo con la chitarra è un momento intensissimo, che impreziosisce ulteriormente un pezzo fra i migliori della loro discografia.
La conclusiva
“The Ocean” ci aiuta a scrollarci di dosso brividi e timori: costruita su un riff scolpito nella pietra, ci ricorda il dominio incontrastato di questi quattro quando si tratta di catalizzare energia fra le note, fra le pause o in un coro, che sembra prima svanire e che si infiamma poi nuovamente, con
Bonham a soffiare sul fuoco e a pestare i tamburi.
Finisce dunque
“Houses of the Holy”, disco magnificamente composto, suonato e cantato. Non fatevi ingannare dalla distanza che lo separa dal precedente “IV”, la band non è minimamente sfiorata da una crisi di idee: al contrario le sessioni di inizio anni ’70 sono le più fruttuose e saranno utilizzate per il ripescaggio di tanti pezzi negli anni successivi. E alla quantità delle canzoni si sommano qualità e varietà, come questo disco dimostra ampiamente; rock, prog, reggae, funky e un pizzico di psichedelia, convivono in maniera convincente (anche perché reinterpretata in un unico stile, che è quello proprio dei
Led Zeppelin).
Attribuirgli un 10 mi sembra conseguenza naturale (e la storia non stava certo aspettando il mio verdetto).
Dopo così tanto tempo e così tanti ascolti, l’impressione è praticamente identica a quella provata da ragazzino: il suono dei dischi dei
Led Zeppelin ha un’eco ancestrale. All’epoca non sapevo definirlo, ma capivo, meglio, intuivo, che quella musica sopravviveva nel tempo come sospesa in un limbo, in una dimensione parallela al semplice quotidiano. Apparteneva ed appartiene ad un livello espressivo che necessita di filtri di analisi differenti rispetto a tutto il resto.
Ecco, questo sono i
Led Zeppelin per me, da “I” a "CODA”, passando per questo splendido quinto disco: sono come Mozart e Beethoven, Hendrix o i Beatles. Sono un’altra categoria.
Giovane e insicuro, cercavo conferme.
“Suona vecchio” mi dicevano sprezzanti gli amici coetanei.
“Suona eterno”, pensavo invece io, che mi sforzavo con tutto me stesso di cercare la strada per capire meglio la musica e la vita stessa.
A cura di Ennio “Ennio” Colaninno