"Sono John Bonham dei Led Zeppelin e voglio semplicemente annunciarvi che abbiamo un nuovo album in uscita: si chiama Presence e, cazzo, è fantastico!".
Nassau Coliseum - Long Island, anno 1976Sto invecchiando?
Sempre più spesso, nell’era del download più o meno legale, più o meno sfrenato, ma sempre deleterio, mi soffermo a ricordare i tempi in cui facevo la mia periodica trasferta in treno, per recarmi dalla periferica Acquaviva delle Fonti alla metropoli Bari, alla volta del mio negozio di dischi di fiducia.
Treni. Vinile. Dischi negli scaffali con l’etichetta “£ 12500”…sembra un racconto di due secoli fa.
Un disco, all’epoca, era un oggetto di culto da esaminare e studiare fino a conoscerne a memoria ogni dettaglio. Un oggetto da amare. Oggi i “giga” di musica ostentati, spesso non sono altro che un totem, a volte quintali di roba presa dalla rete solo perché è gratis, senza discernimento alcuno.
Un giorno (da qualche parte nel 1987) era giusto il turno dell’acquisto di “Presence”, settimo studio album dei
Led Zeppelin, pubblicato nel 1976 per Swan Song Records.
Rimasi immediatamente colpito dalla presenza di un vistoso adesivo giallo in copertina, che, oltre a rovinare l’aspetto esteriore del mio nuovo preziosissimo disco, rappresentava un marchio d’infamia: i Led Zeppelin in “nice price”, come un gruppo qualsiasi caduto in disgrazia. Oggi, dopo tanti anni e tanti ascolti, provo a rispondere a questo quesito: davvero “Presence” è il frutto di una band in parabola discendente? Davvero questo disco è un prodotto minore rispetto ad altre storicamente più apprezzate e più conosciute?
Partiamo dalla già menzionata copertina: la strategia è quella di tornare sulla strada intrapresa per “IV” e “Houses of the Holy”, ossia il rifiuto di indicare esternamente il nome del gruppo o il titolo dell’album. L’intenzione è pubblicare un disco come evento esoterico, al quale gli adepti aderiscano senza necessità di ulteriore esplicitazione manifesta. La setta viene convocata e l’LP è il biglietto d’ingresso alla riunione della società segreta. E il mistero, questa volta, viene alimentato dalla creazione dell’enigmatico prisma nero che appare nelle immagini esterne ed interne dell’album: anche se Page ne ha sminuito il significato in interviste successive, “the Object” richiama in modo significativo quanto impegnativo il monolito nero di “2001: Odissea nello Spazio” di Kubrick, sia pure in forma e dimensioni ridotte. Esso sembra sottintendere un’influenza sul quotidiano della vita delle persone. La famiglia sorridente fa bella mostra di se attorno ad un tavolo, con l’oggetto fulcro della scena e dell’attenzione di genitori e figli; gli alunni di una scuola sono edotti dal prisma nero; un medico lo usa nel proprio studio come talismano curativo. Ovunque questo oggetto è presenza (appunto) aliena e familiare nello stesso tempo, nume tutelare domestico e testimone della vita in tutte le sue manifestazioni, dal lavoro ai semplici passatempi.
Il disco viene registrato presso i Musicland Studios di Monaco, studi di registrazione ambiti ed apprezzati da molti gruppi dell’epoca: Page lavora come un forsennato per rispettare margini di tempo proibitivi, perché non può certo sovrapporsi alle numerose prenotazioni già programmate per l’utilizzo dello studio. Alla fine sarà comunque costretto a chiedere ai Rolling Stones una proroga (gentilmente concessa) per poter terminare il lavoro sulle tracce del disco. E questa pressione produce evidentemente ottimi frutti, perché “Presence” è una bomba sonica.
I Led Zeppelin attraversano tante fasi, fatte di varie sfumature musicali sperimentate nel corso degli anni e la loro genialità (per me) sta nel contaminare il loro hard rock di blues, di folk, di reggae, di pop e di qualsiasi altro stile gli passi per la testa (anche rubacchiando qualche vecchio standard, innegabile), pur conservando un’identità fortissima e grande originalità. Dopo la summa “Physical Graffiti”, che ripercorre tutte le tendenze espresse nella loro carriera, il suono di “Presence” sembra quasi asciugarsi, con tastiere e chitarre acustiche che scompaiono del tutto. Gli Zeppelin sembrano voler riaffermare il concetto urlato anni prima con “II” e sfornano una sequenza di brani duri, elettrici ed affilati come lame, arricchendo il proprio vocabolario di maggior stile, maggior compattezza e maggior esperienza. Voce, chitarra elettrica, basso e batteria esplodono a 11 di gain, con tutta la rabbia e tutto il dolore che i nostri quattro covano per le solite, agitate vicende personali, perenne fonte di tensione all’interno della band.
Quando la puntina dello stereo atterra sul nero vinile, un arpeggio drammatico e semi saturo si affaccia in “fade in”, col volume e il senso d’attesa che crescono a poco a poco. Poi “Achilles Last Stand” parte con un impeto di batteria da scossa tellurica e “Bonzo” ci trascina in una corsa a perdifiato.
Il brano si sviluppa per dieci minuti sulla struttura che Page riserva ai brani per lui speciali (penso soprattutto a “Stairway to Heaven” e “The Song Remains the Same”), ossia la struttura da lunga suite con numerosi cambi di tempo e molte stratificazioni di sovraincisioni di chitarra, strumento come sempre trattato come un’orchestra completa da organizzare e dirigere con perizia scientifica (e stavolta con una precisione e un’attenzione non sempre scontata nelle sue esecuzioni). Il basso è aggressivo e sconfina su frequenze meno usuali, tesissimo e in perfetta sintonia con la batteria di Bonham, letteralmente scatenato in uno dei suoi più bei ritmi di sempre. Plant alterna come suo solito potenza e malinconia, nel tentativo (riuscito, a mio modesto avviso) di rievocare tempi e luoghi fantastici. Insomma un capolavoro, che si chiude come un cerchio, tornando nel finale sullo splendido arpeggio iniziale e poi sfumando.
“For Your Life” è il classico mid-tempo degli Zeppelin, nel quale ad ogni sferzata della chitarra ti sembra di vedere la spalla calante di Page e le sue mosse da spaccone sul palco. Anche questa volta (ma sarà così per tutto il disco) i suoni e l’esecuzione sono straordinarie, alla faccia delle registrazioni fatte in tutta fretta. Jones doppia magistralmente ora la sei corde di Page ora la cassa di Bonham, seguendo i riff sovrapposti che costituiscono l’ossatura del pezzo. L’accordo iniziale, che viaggia sapientemente da un canale all’altro dello stereo, eseguito in maggiore, si trasforma in minore dopo l’ottimo assolo di chitarra, conferendo al brano un tono ancor più rabbioso e spietato.
“Royal Orleans”, scritta a otto mani dal gruppo al completo, ci permette di riassaporare ritmi e soluzioni già apprezzate in “Houses of the Holy” in un bel funky muscolare e ritmato, che chiude in bellezza il lato A di questo disco, che fino a questo momento è stato tutto adrenalina e hard rock di altissima classe.
Anche il lato B si apre con un ingegnoso espediente, che introduce l’ascoltatore al proseguimento della traversata di questo “Presence”: una chitarra effettata, perfetta nel suo effetto lontananza, si avvicina come portata da un vento a spirale. Ad essa fa eco la voce di Plant e su entrambe piombano le bordate di basso e batteria, mai statici e sempre in agguato ad accelerare quando l’ascoltatore viene ingannato da uno stop improvviso. “Nobody's Fault but Mine” canta Plant arrabbiato e disperato e poi continua nella sua confessione “Got a monkey on my back - ho una scimmia sulle spalle”, mentre gli altri tre sparano mitragliate degne, come già accennato, della gloriosa tradizione del secondo disco. Riverbero corto e ritmo saltellante caratterizzano “Candy Store Rock”, in cui Page&Plant manifestano il loro amore per Elvis, in un tributo al rock’n’roll veloce sì, ma quasi svuotato di energia vitale, malato e allucinato. Dopo un brano del genere è necessario una canzone come “Hots On for Nowhere” in cui le mazzate sul rullante, le pause, i riff hard rock di basso e chitarra ci sono tutti e sono in bella mostra, ma almeno ci si ritrova a canticchiare “La la la la la, baby” in modo più leggero rispetto alle tracce precedenti. Bella davvero, canzoncina semplice solo in apparenza, perché c’è tanta sapienza nella costruzione ritmica in questo brano, con un Bonham in stato di grazia come valore aggiunto.
Il disco si chiude con “Tea for One”. Ancora una volta l’intro del brano trae in inganno e alla partenza del giro di chitarra ci si aspetta ben altro sviluppo (almeno così è stato per me): il piede batte il ritmo fino a quando un blues in minore non si rivela al nostro orecchio. Suoni micidiali, lo ribadisco, con un Page ottimo nelle esecuzioni, lo ribadisco: l’assolo inziale condanna all’oblio intere discografie di velocisti della chitarra di tutte le epoche, per intensità e gusto. Ottima la voce riverberata di Plant, abbracciata da tante chitarre sovraincise su non so quante tracce e da una sezione ritmica da manuale, tanto per (non) cambiare. Questo tea consumato dal solitario Plant ha il gusto del grande pezzo, con poco da invidiare alla splendida “Since I’ve Been Loving You” dall’ottimo “III”.
Il disco è finito. Voi ormai avrete già capito come la penso (il mio contatore di word dice più 1600 parole, ho sforato come sempre). A mio avviso “Presence” è un discone pressoché privo di difetti. Sono sordo alle critiche per un eccesso di infatuazione per questo gruppo, ne sono consapevole, ma vi invito ad essere convincenti, nel caso vogliate affermare che questa uscita sia meritevole del “nice price”. Nell’ascoltarlo con la dovuta attenzione provate a sentire il dolore e la paura di Robert Plant, reduce da un incidente quasi mortale; provate a seguire Bonzo nella sua perenne furia alcoolica; provate a immedesimarvi nel composto Jones, che studia diligentemente le sue parti di basso; provate a immaginare le nottate di Page in studio, che cerca di tirar fuori dal cappello a cilindro l’ennesima magia di registrazione e di microfonazione. Scoprirete che questi titani della Musica hanno attraversato gli anni ’70, marchiandoli a fondo con ogni disco prodotto, lasciando un’eredità di inestimabile valore per intere generazioni. Io, a quasi quarant’anni di distanza dalla pubblicazione, sono ancora qui ad emozionarmi.
A cura di Ennio “Ennio” Colaninno