Per i frequentatori del Forum legato a questo Sito che abbiano avuto voglia e pazienza di leggere e commentare il thread dedicato ai Rush, queste righe non saranno del tutto inedite. Per parlare di “Vapor Trails” nelle recensioni “past” di Metalhammer.it mi rifaccio, infatti, a quello che fu un mio commento fiume sul disco, che con qualche revisione, adattamento ed opportuna integrazione riporto qui di seguito: A.D. 2002.
“Vapor Trails”, diciassettesimo studio album dei
Rush, esce per Anthem Records / Atlantic e segna il ritorno dalla morte (è davvero il caso di dirlo) dei miei beniamini canadesi. Un disco su cui si potrebbe scrivere un romanzo, tanto è forte l’impatto emotivo che sta alla base della sua concezione, della sua stessa scrittura e della sua travagliata produzione.
E della sua pessima masterizzazione.
Ma procediamo con ordine. Per i pochi lettori che non lo sapessero, “Vapor Trails” esce a distanza del tutto inusuale per i Rush (molto metodici e schematici nei tempi e nei modi di pubblicazione) rispetto al precedente “Test for Echo” del 1996 (permettetemi di non calcolare “Different Stages”, in quanto live album). La causa di tanta attesa è la terribile tragedia familiare che colpisce Neil Peart, il quale, nell’arco temporale di pochi mesi, perde la figlia (incidente d’auto) e la moglie (cancro). Com’è ovvio, tutte le attività legate alla produzione musicale vengono sospese a tempo indeterminato e Peart decide di intraprendere un lunghissimo viaggio terapeutico con la sua moto, viaggio che lo porterà in giro per le due Americhe alla ricerca di pace e anonimato. Dopo il suo ritorno, la band comincia lentamente e timidamente a riorganizzarsi. Il frutto del lungo e faticoso percorso che i Rush intraprendono per ritrovare loro stessi come uomini, come amici e come musicisti è proprio “Vapor Trails”, per me uno dei dischi-capolavoro della loro lunga produzione, al pari dei grandi classici. Quando l’ho ascoltato per la prima volta, ho avuto la presunzione di percepire ogni mazzata di Neil Peart non solo come un gesto di estrema potenza e precisione, ma anche come un’autentica botta data contro la cattiva sorte…perché in questo disco Neil picchia davvero duro fin dal primo secondo, sia ben chiaro: rullate e tempi sono splendidamente vari (come sempre), governati a stento in una miscela di energia vitale finalmente ritrovata e di senso di rivalsa nei confronti del destino avverso. Nell’album sono senza dubbio centrali il suo drumming e i suoi testi (influenzati per forza di cose dagli eventi personali e quindi particolarmente toccanti), ma in questo disco sono grandissimi protagonisti anche Lee e Lifeson. Come potrebbe essere altrimenti? Le loro eccellenti credenziali di musicisti sono tutte lì, intatte e in bella mostra come sempre, e tuttavia ci sono delle caratteristiche e delle nuove soluzioni che si rivelano piacevolissime: i due si scambiano sovente il ruolo di strumento “ritmico” e “solista” o lo reinterpretano del tutto, non so come spiegare correttamente. La chitarra fa spesso da tappeto alle svisate agili e potentissime del basso; oppure si frammenta in decine di tracce sovrapposte, moltiplicando la presenza e la varietà dei suoni; altre volte ancora si riduce quasi a puro segnale elettrico, come un ronzio minaccioso. Il basso di Lee, che non si è di certo mai limitato a seguire la cassa della batteria in modo “scolastico”, oltre a irrompere con soli molto energici, a volte sostiene quasi da solo la struttura del brano con accordi e doppie linee; altre volte si satura, accelera e asfalta tutto. Entrambi gli strumenti si fondono, si rincorrono e s’intrecciano in un mare di sovraincisioni e di timbri differenti, che confluiscono in un unico muro sonoro dall’impatto devastante. Il grande merito di Alex Lifeson (per me) è quello di concentrarsi sulla cura dei dettagli delle sue parti, senza inseguire sterilmente ipertecnicismi. Non che quello di conferire all’album un sound hard incentrato inequivocabilmente sulla chitarra, vincendo l’annosa battaglia sull’uso (abuso) di tastiere a cui la band si è spesso abbandonata. Il grande merito di Geddy Lee (per me) è quello di portare all’interno della musica del gruppo quanto sperimentato e maturato nel suo lavoro solista, “My Favourite Headhache” uscito un paio di anni prima: le melodie e l’uso della voce di “Vapor Trails” sono chiaramente il risultato della ricerca che il bassista-cantante ha perfezionato da solo, durante gli anni di iato dal pubblico.
“Vapor Trails” è un album di una potenza enorme, eppure poetico e malinconico. Per una volta penso sia inutile scendere nel traccia per traccia (sono davvero tutte, dico TUTTE, splendide e intense): all’epoca ho gridato al miracolo e confermo il mio 9 ½ - 10, pur ammettendo di non possedere il dovuto distacco per giudicare questa band. Consentitemi solo di citare una canzone per tutte, “Ghost Rider” che scelgo a simbolo del dolore di Neil Peart (e del suo senso di smarrimento) e della capacità del trio di trasformare questa sofferenza in una poesia in musica.
Ma in questo trionfo una nota dolente c’è, c’è eccome. Missaggio e masterizzazione del disco non sono qualitativamente all’altezza della situazione: il disco rientrerà persino nell’elenco/indice dei cd contaminati dalla loudness war, ossia la tendenza a registrare con volumi altissimi e compressi, che distruggono la dinamica e creano distorsioni spiacevoli. Romanticamente, il suono di “Vapor Trails” può essere considerato al limite del “noise”, modernissimo, potente e selvaggio, come a rappresentare il desiderio di tornare in azione dei Rush, ma in realtà qualcuno ha toppato la masterizzazione e il suono del cd è stato compromesso.
Non lo dico certo io, è storia.
Un piccolo discorso a parte va fatto per la versione remixata da David Bottrill, tecnico che ho sempre ammirato per il lavoro svolto con Sylvian&Fripp e con i King Crimson. Dopo ripetuti ascolti di questa edizione, datata 2013, sono riuscito a scovare ed apprezzare tanti dettagli impercettibili nel disco originale, al punto che mi sono incaponito nel mettere i due cd (2002 e 2013) in sincrono sul mio stereo, su due lettori diversi (alternando l’ascolto da entrambe le sorgenti, che hanno livelli qualitativi differenti) per portare al limite estremo il confronto. Ho giocato per un bel po’ con i tasti play e pause e alla fine mi è bastato spostare il selettore dell’amplificatore da AUX a TUNER per avere entrambe le fonti sonore disponibili. Si è aperto un intero universo sonoro sconosciuto, con il cd 2002 che perde impietosamente la comparazione: per avere un’idea dell’effetto che mi ha fatto, immaginate di inserire e disinserire il loudness o le equalizzazioni tipo “preset” durante la riproduzione. I difetti di quella registrazione appiattita dalla compressione, purtroppo molto impastata ed a tratti distorta vengono tutti fuori inesorabilmente. Il cd 2013 è pulito (ma altrettanto potente, attenzione) perfettamente distribuito nella “scena” della disposizione degli strumenti; ambienti, riverberi ed echi sono finalmente distinguibili su voce e strumenti; il panpottaggio delle voci ha il giusto risalto; per la prima volta fanno capolino effetti di flanger su alcune rullate e persino alcune tracce di chitarra sono più distinguibili o del tutto distinguibili ex novo (soprattutto in “One Little Victory” e “Ceiling Unlimited”). Insomma, tutto suona meglio, incredibilmente meglio e l’adesivo in copertina con la nota di Geddy Lee si conferma realtà e non solo spot di circostanza: “Le canzoni assurgono a nuova vita”.
Che vogliate acquistare una versione piuttosto che l’altra, forse non ha nemmeno tutta l’importanza che sembro attribuire alla questione: “Vapor Trails” è un disco in cui emozione, tecnica e songwriting sono espressi a livelli davvero molto alti.
Di certo fa un po’ rabbia che all’epoca i tempi e le esigenze commerciali non abbiano consentito ai professionisti coinvolti nella registrazione di lavorare al meglio, ma è giusto, credo, guardare a questo disco anche con un’ottica più legata al sentimento, con la dovuta commozione per la vicenda umana di Peart che viene esorcizzata, senza fissarsi troppo sulla questione tecnica.
Quanto al contenuto puramente musicale, non posso che ripetermi per l’ennesima volta: quando questi tre signori salgono in cattedra, ci tocca sedere fra i banchi e ascoltare in silenzio la lezione. Punto.
A cura di Ennio “Ennio” Colaninno