Quando Timo Tolkki era in forma (recente è la notizia del suo ennesimo “momento destabilizzante”) c’era davvero poco da dire sulle sue capacità artistiche. Artefice del successo di alcune band da una parte (Edguy per dirne una), autore di brani e dischi importanti dall’altra (“Episode” è uno di questi assieme al successivo “Visions”). Gli
Stratovarius, band dalla biografia tutt’altro che monotona, in un momento cruciale per la storia del power metal (a metà degli anni Novanta il genere avrà una crescita esponenziale) introducono sostanzialmente due elementi che faranno scuola (chi ha detto Sonata Arctica?) e che li differenzieranno dalla matrice teutonica di Helloween e Gamma Ray: un tastierista di ruolo (un certo Jens Johansson di Malmsteeniana memoria, talento estremamente sottovalutato dai più) a fare da contraltare al chitarrista principale (Tolkki stesso) e una produzione che più cristallina e definita non si può. Le canzoni ben scritte sono alla base di tutto, ci mancherebbe, eseguite magistralmente da una formazione tecnicamente molto dotata (non nego di non aver comunque mai apprezzato particolarmente l’ugola di Kotipelto). L’introduttiva “Father Time” è un manifesto, scopiazzata qua e là da tutti i gruppi power sorti poco dopo, così come la successiva “Will The Sun Rise?”. Non mancano poi i momenti strumentali (più o meno “ipertecnici”) con o senza orchestra (“Episode” e “Stratosphere”), anche questi divenuti usuali negli anni a venire, e i lenti “strappamutande” per i più esigenti (“Forever” è oggettivamente un gioiellino fatto di niente). Un disco “vario”, cosa tutto sommato rara nel power metal, il cui ascolto non è pesante come lo sarà per alcuni dischi successivi sia degli Stratovarius che di altre realtà. Il momento “di grazia” del combo finlandese.
A cura di Gabriele Marangoni