La pacchia è finita.
Il numero 1 raggiunto nelle classifiche di ben 27 paesi sul pianeta da "
The Final Countdown" è solamente un ricordo, nemmeno troppo lontano dal punto di vista temporale, ma che sembra passato remoto come impatto sulla scena.
Nel 1991 il melodic rock, l'AOR, l'hair metal, chiamatelo come volete, non è più al potere, ma all'opposizione. Il motto "
here we are now, entertain us" dei
Nirvana è il nuovo “mantra” da recitare come dogma per giovani aficionados, ma anche per i "trend-aioli" sempre pronti a passare da un carro vincente all'altro, e non certo nel nome della coerenza, quanto piuttosto dell'opportunità.
Gli
Europe si trovano quindi in una situazione non invidiabile: continuare nella loro proposta fatta di hard rock al miele, oppure passare al "lato oscuro della forza"? "
Prisoners In Paradise", fin dal titolo (anche se in realtà si riferisce alla location turistica scelta per le registrazioni), descrive una band ferma sulle proprie posizioni, altrettanto salda nelle sue convinzioni. Il produttore
Beau Hill spinge ancora di più nella direzione di un suono americano da "big arena", tra il class metal ed alcune inflessioni "stradaiole", smussando definitivamente il retaggio europeo che comunque ancora possedevano molti episodi di "The Final Countdown" e del successivo "
Out Of This World", con i loro riferimenti nemmeno troppo velati ai vari
Whitesnake,
Rainbow,
UFO e compagnia gloriosa.
Solamente "
Seventh Sign" e "
Girl From Lebanon", nelle quali
Mic Michaeli tradisce i sintetizzatori in favore dell'Hammond, ricordano pesantemente il passato "classico" di "
Wings Of Tomorrow", ovviamente al netto di una produzione molto più nitida e professionale. Tra la "splendida dozzina" di songs che vanno a completare il disco, spicca ovviamente la secca opener "
All Or Nothing", scritta con l'ausilio di
Eric "Mr. Big" Martin, ma anche l'inno giovanilistico alla "
Summer Of 69"/"Run To You" a titolo "
Halfway to Heaven", dove si fa appunto sentire il pennino fatato di
Jim Vallance, celeberrimo “compagno di merende” di
Bryan Adams nel suo periodo d'oro.
"
I'll Cry For You" è una buona ballad che vorrebbe competere con "
Carrie" ed "
Open Your Heart" anche se, ad onor del vero, non possiede né la grazia melodica della prima, né il drammatico pathos della seconda. Le varie "
Little Bit Of Lovin'", "
Talk To Me" e "
Bad Blood" sono delle potenziali e dirompenti hit, che però non riescono a raggiungere il clamore suscitato da una "
Rock The Night" o da una "
Cherokee".
Peccato, perché l’eccellente songwriting dimostrato in queste occasioni risulta caratteristica da navigati "chart breakers" con tanto di pelo sullo stomaco. “
Til My Heart Beats Down Your Door” e “
Got Your Mind In The Gutter” sciorinano atmosfere gioiose e sbarazzine, con un
Kee Marcello che sovrasta indubbiamente in presenza le tastiere di Michaeli. Discorso a parte merita la title-track, probabilmente il più grande brano mai composto dal gruppo svedese: ad un incipit regale e vagamente sinfonico, si sostituiscono parti vocali meravigliose, che sfociano in una sorta di tributo personalizzato nei riguardi dei
Beatles di “
Let It Be” a ridosso dello straordinario refrain. Il problema dell’insuccesso commerciale patito da “Prisoners In Paradise”, che porterà al lungo periodo di scioglimento della band, non è quindi assolutamente da imputare alla straordinaria vena creativa degli Europe, ma alle distopie temporali che, in un batter d'occhio, canalizzano l'attenzione delle masse verso ben altri lidi.
Un lavoro con fiocchi e controfiocchi, per quanto mi riguarda inferiore solamente al capolavoro, forse incompreso a metà, "Out Of This World".