Due dischi in nemmeno un anno. L’urgenza comunicativa degli Svedesi StoneLake deve essere davvero consistente, ma non so se assecondarla senza un’adeguata riflessione sia stata poi una grande idea.
Cercherò di spiegarmi meglio. “World entry”, il lavoro precedente, mi era piaciuto abbastanza, nella sua evidente devozione per l’hard ‘n’ heavy di ottantiana memoria, sviluppata attraverso una gradevole (anche se a volte un po’ spiazzante) alternanza tra potenza e melodia.
Oggi gli StoneLake non abiurano il loro “credo” ispirativo fondamentale, ma decidono di incrementare il fattore aggressività, rendendo altresì più omogeneo, “moderno” ed equilibrato il loro suono, che però, a mio modo di vedere, pare alla fine anche maggiormente anonimo.
Peter Grundstrom è sempre un ottimo vocalist, e tuttavia la sua ugola s’inasprisce per sostenere a dovere la nuova ambientazione sonora, perdendo un pizzico di quella capacità “seduttiva” evidenziata in passato, mentre la chitarra di Akesson appare costantemente competente, ma anch’essa caricata di un’ulteriore irruenza, cede una stilla della sua caratteristica sensibilità.
In questo modo il quartetto scandinavo reprime il suo tipico approccio melodico figlio della tradizione nordica del rock duro e finisce per risultare l’ennesimo crocevia Priest / Queensryche / Edguy, privato della sua illuminata tipicità, come spesso accade nei casi di “saccheggio” non eccessivamente focalizzati.
Il disco non è brutto, si lascia ascoltare con discreta facilità e in qualche caso (la title-track, la Crimson Glory-esque “Pain and hunger”, la classy “White flame” e le due bonus tracks “Saint or evil” e “Wonderland”, anch’esse gratificate da una superiore dose di raffinatezza) riesce ad evocare buonissime vibrazioni, eppure la sensazione complessiva è quella che non riesca a “colpire” in profondità, forgiato di una sostanza paragonabile ad un fluido che si distribuisce agevolmente sulla superficie dei sensi e che con la stessa prontezza evapora senza lasciare traccia.
Immagino che molti non saranno d’accordo, perché, anche grazie ad una produzione leggermente più esplosiva, “Uncharted souls” può formalmente sembrare maggiormente incisivo e “attuale” del suo predecessore, ma per quanto mi riguarda non c’è stata nessuna evoluzione apprezzabile nel percorso artistico dei nostri, anzi, arriverei addirittura a definire il loro terzo full-length come un piccolo passo indietro.
Magari in questo caso la fretta è stata veramente una cattiva consigliera.
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