Cinque anni fa avevamo lasciato il carrozzone
Metallica impantanato nella più totale confusione condensatasi in
St. Anger, uno degli album peggiori a memoria d’uomo.
Quindi, cosa aspettarsi dai Metallica nell’anno del signore 2008? Poco, a prescindere dal fatto d’essere fan integralisti o detrattori altrettanto radicali della band californiana.
Dalla prima nota di “
That Was Just Your Life” è chiaro che i Metallica, dopo anni trascorsi nel tentativo di distruggere il metal dal proprio interno (rendendosi iconograficamente più imbarazzanti dei Backstreet Boys) abbiano concluso che potesse risultare lecito giocare la carta del ritorno al passato, senza però dimenticare di strizzare l’occhio a quella fetta di pubblico che è riuscito ad apprezzarli anche nel corso degli anni ‘90.
La domanda, che per ogni formazione varrebbe la vendita di qualche milione di copie, ma che per i Metallica non si pone giacché i loro dischi vendono a prescindere, è se il gruppo sia stato in grado o meno di mettere insieme un buon prodotto di mestiere, quindi nulla di artisticamente sconvolgente e innovativo, ma semplicemente ascoltabile (per capirci quello che riescono a fare da una vita band come i Motorhead).
Purtroppo per le nostre orecchie la risposta è ancora una volta no.
È innegabile che il gruppo si sia applicato nel tentativo di tornare a fare il buon quartetto metal, ma ciò che ha ottenuto non è assolutamente sufficiente.
Hetfield ce la mette tutta per cacciare fuori riff che artiglino ma al massimo riesce a graffiare come farebbe un gattino appena svezzato. Per quanto lo riguarda, però, il peggio viene fuori quando si avvicina al microfono. La sua voce, infatti, non entra mai nel contesto del pezzo risultando irritante o lagnosa (vedi "
The Unforgiven III").
Hammett, invece, dimostra ancora una volta d’essere l'allievo illustre più scarso di Joe Satriani. Come faccia un chitarrista professionista con venticinque anni di carriera a comporre soli talmente banali e inutili è un dilemma avvolto in un'enigma indecifrabile.
Stesso enigma per
Ulrich, verso il quale abbiamo perso ogni speranza d’ascoltarlo, un giorno, nell’atto di costruire una sezione ritmica di batteria che non sia impostata a casaccio come se dietro lo strumento ci fosse un novizio che tiene le bacchette in mano da un paio di settimane al massimo.
L’elemento potenzialmente più interessante del quartetto l’ho tenuto volutamente per ultimo, perché, dopo quindici anni di
Newsted che compositivamente contava meno di zero, l’arrivo di
Trujillo poteva dare adito ad una certa fiducia in merito al contributo che il bassista avrebbe potuto fornire nella stesura dei pezzi.
Fiducia mal riposta, perché del possente Robert, che molto diede ai capitoli più entusiasmanti dei
Suicidal Tendencies, qui non si sente nulla.
Siccome i Metallica, per anni, sono stati sinonimo di
Bob Rock non si può lesinare un commento su
Rick Rubin che ne ha rilevato l’incarico. A dispetto dell’entusiasmo che percorse i fan del gruppo, convinti che Rubin avrebbe ricondotto i Metallica sulla retta via (manco fosse il produttore a comporre i pezzi…) non si trova nulla di eclatante da segnalare.
Il rullante di Lars per fortuna non suona più come una pentola Mondialcasa, ma il suono della batteria è ancora troppo secco perché giunga all’orecchio senza nuocere. Va meglio per quanto riguarda le chitarre cui, comunque, avrebbe giovato maggiore enfatizzazione dal momento che riff e soli non sono esattamente da museo della musica. Il basso anche in sede produttiva dimostra di contare poco. Nel complesso, comunque, abbiamo trovato poco azzeccato il taglio generale dei suoni che forza la mano verso una ruvidità che nel gruppo aveva senso solo in Kill Em All.
Arrivato a questo punto, non mi resta che augurare ai Metallica una pensione felice, i tempi sono ormai fin troppo maturi per compiere un passo che meritava d’essere anticipato quasi un decennio fa.