E’ sempre piuttosto difficile tentare di “spiegare” con le parole i dischi dei
Martiria, nello stesso modo in cui non è affatto agevole raccontare un’opera d’arte.
Perché di questo in fondo si tratta, di opere d’arte: rigorose, armoniose, imprevedibili, fosche, intense, prezioso patrimonio di coloro che sanno apprezzare appieno l’alone mistico, le nebbie tenebrose, l’enfasi catartica e l’eroica forza espressiva che esse sono in grado di sprigionare.
Anche per questo terzo capitolo l’unico riferimento stilistico veramente plausibile è quello dei favolosi Warlord, ma come ho già avuto modo di affermare in passato, non c’è la minima ombra di sofisma in questa nobile forma d’allusione. Unici e irripetibili sono stati i Signori della Guerra californiani e originale ed inconfondibile appare oggi il suono dell’act capitolino, mentre gli elementi comuni sono da individuare in un similare approccio culturale alla materia e in un analogo “sacro fuoco” ispirativo.
Questo ricorrente paragone comunque potrebbe risultare per alcuni una forma di “dolce” condanna dalla quale cercare di affrancarsi il più possibile, ma non per i nostri, che decidono addirittura di concedere apertamente il fianco a chi eventualmente volesse accusarli con leggerezza di una palese dipendenza, affrontando una rilettura della magistrale “Soliloquy”, una delle scintillanti gemme dei maestri di San Josè che qui diventa una disperata ballata liturgica pregna di grandeur (enorme la prova di Anderson), dimostrando tutto il temperamento e la personalità di una band che non ha paura di esibire le sue affezioni artistiche ed è consapevole di poterle affrontare con il dovuto rispetto e tuttavia anche con un’imprescindibile creatività individuale.
Con il contributo di sobrie e razionali strutture corali di stampo “operistico”, “Time of truth” manifesta tutta la sua grandezza in una maniera probabilmente più “diretta” dei suoi predecessori, eppure ciò non adombra minimamente la sua carica trionfale, la sua leggiadria epica e la sua magia gotico-medievale, orchestrate ancora una volta dalle liriche del poeta Marco Capelli (impegnato pure come narratore nel prologo e nell’epilogo dell’albo), dalla penna, dalla chitarra e dalle tastiere maliose e vibranti di Andy Menario e dalla voce arcana ed incantevole di Rick Anderson, le quali, con il fattivo contributo di una pulsante sezione ritmica (composta da Derek Maniscalco e dalla new entry Fabrizio La Fauci) compongono e scompongono, con una perfetta sintonia d’intenti, note maestose ed estasi fascinose, realizzando immaginifici scenari musicali di straordinaria avvenenza.
Le pennellate che tratteggiano questa particolare tipologia di tela sono le canzoni: tetre e solenni, melodicamente avvincenti, articolate e traenti, elegiache e intrise di dramma, esse si manifestano catturando incessantemente gli “occhi” e gli altri sensi, stregando l’ascoltatore appassionato, incapace alla fine di operare delle discriminazioni e di distogliere lo “sguardo” da uno spettacolo il cui potere suggestivo si rivela emotivamente tirannico.
Un disco incredibilmente valoroso per una band da annoverare nella ridotta schiera di quegli “eletti” ancora capaci di incarnare, con coerenza, ispirazione e credibilità, lo spirito “senza tempo” dell’heavy metal “mitologico” più autentico, maturo ed incantatore, e se questi sono concetti che in qualche modo hanno un significato per Voi, non credo sia necessario aggiungere altro per indicarvi cosa fare per arricchire opportunamente la Vs. “pinacoteca” personale.
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