Gli Slipknot tornano con questo “All Hope is Gone”, album che segna un passo indietro, ma non troppo, rispetto a “Vol. 3”, la qual cosa, dal mio punto di vista è assolutamente positiva.
Questo significa che oltre alla melodia, la band si ricorda che è nata per picchiare duro, e anche se la violenza, e soprattutto la rabbia, non raggiungono i livelli del debut omonimo o di “Iowa”, ci sono passaggi di assoluto spessore. Ma andiamo con ordine.
Dopo il solito intro disturbato, “.Execute.” in questo caso, il disco inizia bene con “Gematria (The Killing Name)”, la quale apre con un riffing decisamente death metal, innestato su una struttura percussiva che sembra accelerare fino all’esordio di Corey Taylor, con uno stile canoro che richiama un po’ “Wait And Bleed”. La canzone è veramente potente e cattiva, c’è spazio anche per un pregevole assolo di Mick Thompson.
La successiva “Sulfur” ha una partenza più interlocutoria, anche se il riffing è ancora maligno e Joey Jordison fa mulinare i propri arti in maniera tentacolare. Tuttavia, come nel peggiore degli incubi, arriva la melodia del ritornello, pulita, con clean vocals, a spezzare l’atmosfera da
aftermath della song. Voglio subito chiarire, ancora una volta, che sono assolutamente contrario all’uso che la band fa di questa melodia, di chiaro stampo Stonesour, sebbene questa si integri molto meglio con le parti violente, rispetto al precedente disco.
L’esempio più lampante è proprio “Psychosocial”, sicuramente una delle migliori canzoni del disco, ruffiana e loffia quanto basta, con un ritornello catchy che ti si stampa in testa, ma che non tralascia di mostrare i denti.
Questa lenta deriva verso la melodia di cui sopra prosegue con “Dead Memories”, quasi interamente cantata con clean vocals, mitigata dal fatto che, tuttavia, il mood della canzone è abbastanza sulfureo.
“Vendetta” ha un bel chorus, una struttura solida, un cantato pulito ma potente, anche se la canzone in sé non mostra particolari degni di nota, a differenza di “Butcher’s Hook”, dove chitarrista e batterista si divertono a fare il verso ai Meshuggah; ma gli Slipknot non sono la band di Umea, non sanno trasformare le loro canzoni in veri e propri incubi sonori (come invece avveniva nel debut), e qui il cantato melodico è davvero fuori luogo perché stride eccessivamente con le parti più brutali.
“Gehenna” sovverte i pronostici, riesce ad essere disturbante pur senza picchiare duro, risultando malata.
Con “This Cold Black” si torna ad essere
evil & nasty, si mettono da parte i compromessi, c’è solo volenza e voglia di far male. “Wherein Lies Continue” inizia cattivissima, ribassata, cadenzata, quadrata, poi c’è il ritornello insopportabilmente melodico, assolutamente fuori luogo, a rovinare quello che sembrava essere uno dei pezzi più ispirati.
La penultima canzone è anche la migliore di tutto album, ed è una ballad (!), ovvero “Snuff”, assolutamente fuori contesto in un disco degli Slipknot. D’altronde sentire Corey che canta “
I still press your letters to my lips/And cherish them in parts of me that savor every kiss/I couldn't face a life without your light” è assolutamente incredibile. La canzone è veramente troppo bella.
Chiude il disco la title-track, dove Jordison va alla velocità della luce, seguito a ruota da tutta la band che fornisce una prova finalmente brutale e perversa.
Per dare un giudizio compiuto bisogna fare un po’ mente locale cercando di individuare i pro e i contro di questo disco. Ciò non può prescindere da un confronto col passato. Non è brutale come i primi due, ma non è nemmeno melodicamente insulso come “Vol. 3”. La qualità delle canzoni è sicuramente migliorata, tuttavia la band ha deciso di accantonare quasi del tutto gli elementi di contorno. Cioè se invece di essere formata da nove elementi, la band fosse di soli cinque (voce, basso, due chitarre e batteria) il suono sarebbe identico o quasi. E questo per me è assolutamente negativo, visto che uno dei punti di forza della band era appunto la possibilità, a livello di
songwriting, che veniva offerta dal dj e dai percussionisti. Il sound adesso è più prevedibile.
Bisogna inoltre aggiungere che si è persa per strada l’urgenza, la brutalità, il livore degli esordi, sicché anche le parti più violente sembrano artefatte. Non torneranno più i tempi di “Eyeless” o “Sic”, e ciò è dovuto anche ad un fattore fondamentale, la scelta della band di non affidarsi più a Ross Robinson dietro la consolle, e non è un caso che i primi due dischi siano prodotti dal vero guru del Nu Metal.
Gli Slipknot oramai non hanno più l’originaria ragione di esistere, sono una versione più potente degli Stonesour, non fanno paura più a nessuno, potrebbero levarsi anche le maschere (vedrete lo faranno a breve), hanno messo da parte odio e livore, e ci cantano struggenti canzoni d’amore. Se si riesce a non fare mente locale su questo (cosa, in verità, assolutamente difficile per i fan della primissima ora come me) allora questo disco fa per voi.