Questa volta devo proprio cospargermi il capo di cenere. All'indomani della dipartita di Michele Luppi dai
Vision Divine e dell'annuncio del ritorno in pianta stabile di Fabio Lione, avevo immediatamente abbandonato la causa di questa band. Il sottoscritto ricordava infatti più che bene i primi due dischi del gruppo di Olaf Thorsen, usciti quando ancora il chitarrista toscano militava nei Labyrinth e i Vision sembravano più un pretesto per sfruttare al meglio la pazzesca esplosione del power metal, piuttosto che l'inizio di un nuovo percorso artistico. Ci è voluto il terzo lavoro, quello “Stream of consciousness” da molti ritenuti il loro capolavoro (a me piace uscire dal coro e voto il successivo “The perfect machine”), per far capire chi fossero davvero i Vision Divine.
L'ingresso di Lione avrebbe lasciato intatto cotanto splendore? Pareva di no, soprattutto a giudicare dalla pessima prestazione offerta dalla band al Rockin' Field di quest'estate. E invece... succede quello che non ti aspetti. “9 degrees west of the moon” (titolo suggestivo, che rivela un concept lirico ancora una volta non banale e interessante) è forse il più bel disco dei Vision Divine. Non il più bello dopo “The perfect machine”, ma proprio il più bello in assoluto. Ci vorrà forse ancora del tempo per affermarlo con certezza, ma sin da ora possiamo dire che Thorsen a compagni non sono tornati indietro, non si sono rifugiati nella comoda formula di un power metal semplice e lineare, magari andando ad abbracciare quei fan rimasti a bocca asciutta dopo la pausa forzata dei Rhapsody. I nove pezzi confezionati dai nostri sono infatti la naturale prosecuzione del discorso iniziato con “Stream...” e presentano un metal in cui la bellezza e l'immediatezza di certe melodie convivono a meraviglia con le ritmiche aggressive e le strutture intricate, quasi prog, di certi passaggi. Un disco caleidoscopico, che vive di diverse influenze senza sposarne nessuna in particolare, un disco per nulla etichettabile con facili formule, e che sembra animato unicamente dalla passione che questi ragazzi nutrono per la musica vera, quella che va dritta al cuore e al cervello e se ne fotte altamente dei trend e dei ragazzini con gli ipod.
Così ecco “Letter to my child never born”, un assalto frontale in pieno stile Vision Divine, con la chitarra di Olaf Thorsen a macinare riff inarrestabili, e la voce di Fabio Lione a prodursi in un ritornello stratosferico, che conferma per l'ennesima volta l'abitudine di questa band a partire col botto (gli opener dei precedenti tre dischi erano tutti dei capolavori). Segue “Violet Loneliness” e arriva la sorpresa di ritrovare immutate quelle influenze AOR che erano diventate una costante dei lavori con Luppi alla voce. Allora forse c'è del vero, nella teoria che vuole il singer non così determinante nei corsi e trascorsi del gruppo (vedi l'imminente intervista per ulteriori delucidazioni). Con “Fading shadow” si ritorna su lidi più potenti, con Fabio che si produce in linee vocali per nulla immediate ma dannatamente efficaci. “Angels in disguise” è invece una meravigliosa ballata (ma la sminuiremmo a chiamarla così) dal sapore prog, in cui le tastiere risultano in primo piano e dove ancora una volta Fabio si produce in una performance di serie A. Non c'è alcun dubbio: la maturità e la versatilità mostrate dalla sua voce in questo album hanno del miracoloso. Evidentemente l'immobilismo compositivo del duo Turilli/Staropoli non gli dava la possibilità di esprimersi al meglio ma qui risulta addirittura superlativo.
Se “The killing speed of time” mostra influenze quasi thrash alle quali non eravamo abituati (incredibile le vocals “sporche” di Lione), l'accoppiata “The streets of Laudomia” e “Fly” sembra fatta apposta per rassicurare i fan, con melodie ariose e meravigliosamente class metal; qui “God is dead” incontra “Versions of the same”, ma siamo ben lontani dall'autocitazione! “Out in open space” è un bel mid tempo energico, ancora una volta supportato dall'intreccio di chitarra e tastiera, impreziosito da un ritornello tanto per cambiare vincente. La title track è invece un piccolo gioiellino di atmosfera, toccante e delicata ballad pianistica in crescendo, con Fabio Lione ancora una volta sugli scudi. Bellissima, ma in modo diverso da “Identities”, più intimista e crepuscolare, se questi due aggettivi possono essere usati per descrivere una song.
Infine, buttata lì quasi con noncuranza, una sorprendente versione di “A touch of evil”, un pezzo poco conosciuto di una oscura band britannica che dicono abbia fatto la storia del metal... per la verità non ci sono differenze con la versione originale, salvo che i suoni sono quelli dei Vision Divine e la voce quella di Fabio (che se la cava egregiamente, anche se comprensibilmente non raggiunge i livelli del pelato borchiato).
Che dire? Non so se a dicembre inserirò questo album nella mia personale “top five” del 2009, ma per ora è candidato in pieno. Adesso posso proprio gridarlo a squarciagola: i Vision Divine sono una delle più belle realtà del metal contemporaneo Se vi definite fan dell'heavy metal non potete non comprare questo disco! Per quanto mi riguarda, non mi resta che attenderli al varco dal vivo, sperando che anche in questa sede riescano a fare faville...