Quando vengono annunciati, l’emozione è forte. D’altra parte l’occasione è veramente ghiotta: assistere ad una performance dei
Pentangle in formazione originale è opportunità da non lasciarsi sfuggire. L’evento è fortemente evocativo: il 29 giugno 1968, infatti, veniva registrata in questa stessa Royal Festival Hall di Londra, la parte live del doppio album “Sweet child”, uno dei loro capolavori.
I Pentangle sono uno dei pilastri della musica folk-rock britannica; oltre a
“Sweet child” (Transatlantic, 1968), sono ASSOLUTAMENTE imperdibili il precedente
“Pentangle” (Transatlantic, 1968) e i successivi
“Basket of light” (Transatlantic, 1969 – senza dubbio il più famoso),
“Cruel sister” (Transatlantic, 1970),
“Reflection” (Transatlantic, 1971) e
“Solomon’s seal” (Transatlantic, 1972). L’etichetta “folk-rock”, tuttavia, non rende giustizia al Pentagono e alla sua fame di sperimentazione: la tradizione folcloristica anglosassone rappresenta il punto di partenza di un raffinatissimo viaggio che miscela sapientemente folk, rock, blues, jazz, musica rinascimentale, elisabettiana e barocca. I talenti cristallini e le tecniche sopraffine di Bert Jansch (chitarra, banjo, voce), di John Renbourn (chitarra, sitar, voce), Jacquee McShee (voce), Danny Thompson (contrabbasso) e di Terry Cox (batteria, percussioni, voce) risultano perfettamente amalgamate in un percorso dall’elevata sensibilità artistica, creando atmosfere dense di magia e provocando sensazioni ricche di pathos e godimento intellettuale.
Sono sufficienti poche note perchè quelle atmosfere siano ricreate... gli intrecci tra le chitarre di Jansch e Renbourn sono incantevoli, le strutture ritmiche sono complesse, a tratti ipnotiche, la voce lunare di Jacquee McShee non ha quasi perso nulla rispetto a 40 anni fa. L’incredibile resa acustica è garantita dalla Royal Festival Hall, favolosa sala da concerti dalla gradevole architettura contemporanea, affacciata sulla riva sud del Tamigi, circondata da caffè e dotata di un ampio foyer: contrabbasso e batteria sembrano entrare nel sangue, le pulsazioni seguono il ritmo e quando Renbourn attacca gli assolo, beh, sono scariche di adrenalina pura.
Il concerto scorre via veloce e l’elevato livello artistico è condito dalla vena ironica di artisti consci di non essere più "imberbi" (è proprio questo uno dei temi ricorrenti degli intermezzi che fungono da interludi ai brani; esemplare in tal senso quando Jacqui McShee definisce “the moment of truth” il momento in cui Renbourn - che per la cronaca suona l’intero set in ciabatte - deve sedersi in terra per imbracciare il sitar!), ma ancora capaci di divertirsi e divertire. Il repertorio è quello che ha reso grandi i Pentangle: vengono riproposti i particolarissimi arrangiamenti di brani della tradizione britannica e americana (“
Let no man steal away your thyme”, ”Bruton town”,
“Willy O’Winsbury”,
“Will the circle be unbroken”,
“Cruel sister",
“House Carpenter”...), con escursioni in un blues più marcato (
“No more my lord”,
“I’ve got a feeling”) e nel jazz (
“Goodbye Pork-Pie hat”, del maestro Mingus), passando per le complesse composizioni originali della band (
“Light flight”,
“Springtime promises”,
“Hunting song”,
“Three part thing”…).
Il numeroso pubblico (l’evento era dato sold-out da tempo, eppure stranamente si nota anche qualche posto vuoto) apprezza diffusamente, emozionandosi ascoltando la murder ballad
“Cruel sister”, accennando il coro in
“Will the circle be unbroken”, in un crescendo di esaltazione, a dire il vero molto composta, ma percepibile nei fremiti emotivi che attraversano la sala. Molti spettatori mostrano un’evidente appartenenza generazionale: si intravedono qua e là le scorie di un passato da probabili “figli dei fiori”, gli abiti denunciano una sorta di tentennamento tra “l’hippie-smo” della gioventù e un presente esteticamente più convenzionale, con alcune attempate ladies che sfoggiano addirittura impeccabili messe in piega di uno sgargiante colore fucsia. Taluni sono con la famiglia; immagino la bella sensazione di questi genitori che hanno avuto un’opportunità forse unica di condividere con i figli, ventenni/trentenni, emozioni riemerse dal loro passato, eppur vive e vitali nel presente. Poi ci sono quelli che semplicemente amano la buona musica, che hanno scoperto i Pentangle chissà come e dove; mi chiedo quanto siano i chitarristi dilettanti presenti in sala cresciuti con il finger-picking di Jansch o le accordature aperte di Renbourn.
E loro, i Pentangle? Cosa faranno alla fine di questo tour celebrativo? Probabilmente, e credo saggiamente, torneranno ad occuparsi delle loro carriere soliste, consci di aver regalato ai loro fans dei momenti che difficilmente dimenticheranno.
Una band da scoprire, da riscoprire e da seguire anche nelle carriere soliste. Lo stimolo non è solo musicale, ma anche socio/culturale: chi si accosta ai Pentangle si avvicina al mondo della Londra di fine anni ’60-inizio anni’70, a quel furore artistico e intellettuale che animava le Soho nights in quegli anni. Le note del british blues dell’Alexis Corner Blues Band (sezione ritmica: Danny Thompson e Terry Cox ...) e di John Mayall con i suoi Bluesbreakers, si diffondevano dai locali; a Soho si esibiva anche Davy Graham, padrino della chitarra acustica nelle isole britanniche (la definizione è di Colin Harper) e grande contaminatore di generi (l’accordatura DADGAD l’ha inventata Graham o Jansch, per quanta importanza possa avere?), qui si poteva incontrare un giovanissimo Paul Simon, spesso a Londra a imparare ballate tradizionali, Pete Townshed era abituale spettatore dei concerti di Jansch e la “Black Mountain Side” di J. Page ricorda molto, molto da vicino la “Blackwater Side” di Jansch. La Incredible String Band, l’espressione del folk più vicina alla filosofia hippie, aveva suonato a Woodstock, nascevano gli Steeleye Span (dove confluirà l’altro grande padre della chitarra acustica anglosassone, Martin Carthy) e i Fairport Convention, band dalle innumerevoli formazioni orientata al rock americano, che vede tra i suoi elementi Dave Pegg, proveniente dai Jethro Tull e che ha segnato l’esordio di Richard Thompson, forse il miglior songwriter nato in quel periodo (in questi anni è spesso in tour con Danny Thompson, con cui – detto per inciso- non ha alcun legame di parentela). Andy Irvine e Johnny Moynihan bazzicavano per Londra e contribuendo alla nascita dei già citati Steeleye Span; tornati in Irlanda daranno una scossa alla musica tradizionale irlandese con gli Sweeney’s Men, e poi, incontrato Christy Moore, (anch’egli tornato da Londra), daranno vita ai Planxty ... ma non si finisce più! Credo che i curiosi siano sufficientemente stimolati da queste connessioni, alcune difficilmente immaginabili, anche se, per tornare ai Pentangle e capire da dove era loro arrivava la tendenza a miscelare generi diversi, si dovrebbero scrivere due righe pure sullo “Skiffle” dei 50’s o su personaggi quali Chris Barber e Lonnie Donegan...
Buon approfondimento a tutti!
(Un libro utile per capire cosa succedeva in quegli anni è l’opera di Colin Harper: “Dazzling Stranger: Bert Jansch and the British Folk and Blues Revival”, Bloomsbury).
Il report è stato realizzato con l’essenziale contributo dell’amico
Enrico Mathis, profondo conoscitore ed estimatore del settore, che ringrazio di cuore per l’impegno profuso nel testo che avete appena letto e per essere stato l’ottimo organizzatore, l’impeccabile “mastro-cartografo” e il prezioso compagno di questo emozionante ed affascinante viaggio nella vecchia Albione.